Letture consigliate

 

Loading

             

LETTURE CONSIGLIATE

 
           

Ruggero Giacomini, Il giudice e il prigioniero. Il carcere di Antonio Gramsci

 

 

di Alexander Höbel

 

Il libro di Ruggero Giacomini su Gramsci e sulle strategie del potere che lo deteneva in carcere costituisce una precisa e utile messa a punto su una serie di questioni di cui in questi ultimi anni si è molto discusso: il carcere di Gramsci, il suo rapporto col Partito e con l’Internazionale, il procedere della sua elaborazione. Il volume di Giacomini, tenendo conto della vasta bibliografia su questi temi, vi apporta un contributo originale, basato su fonti archivistiche finora trascurate o non del tutto analizzate.
Negli ultimi anni, a proposito della vicenda carceraria di Gramsci, si è tornato a discutere della famosa (o “famigerata”) lettera di Grieco, che il giudice Macis pose all’attenzione del prigioniero, instillandogli il sospetto di una sorta di complotto ai suoi danni. Molto poco però si era finora esaminata la figura del giudice, e invece proprio la ricostruzione del suo percorso biografico da parte dell’Autore rappresenta uno dei primi meriti del libro. Macis ne emerge come un uomo ambizioso, spregiudicato e scaltro, che briga per ottenere il posto di giudice istruttore militare pur non avendo superato il concorso – e riesce infine a spuntarla –, poi entra a far parte del Tribunale speciale fascista, e in questo ambito si rivelerà zelante esecutore, ma anche protagonista, della manovra contro Gramsci imbastita dall’OVRA e dagli apparati fascisti, utilizzando la lettera di Grieco dopo essersi conquistato la fiducia del prigioniero fingendo di essere “super partes” e simulando una inesistente conflittualità fra Tribunale speciale e organi di polizia, e ottenendo poi premi e avanzamenti di carriera per il “lavoro” svolto. Lo stesso Macis insabbia l’inchiesta sulla bomba alla Fiera di Milano, che serve al fascismo per un’ulteriore stretta repressiva; nel 1935 parte volontario per l’Africa – sempre come giudice militare – e nella seconda guerra mondiale sarà nella Slovenia occupata dai fascisti, dove pure si mostrerà zelantissimo, finendo nell’elenco dei criminali di guerra di cui la Jugoslavia chiederà l’estradizione. Ma incredibilmente Macis riesce ad acquisire una “patente” di antifascista, per il solo fatto di non aver prestato servizio per la Repubblica sociale, ottenendo infine – grazie alla mediazione di un esponente di Giustizia e Libertà – addirittura la qualifica di “gregario” partigiano… Un esito sconcertante, ma che si colloca in un percorso per molti aspetti emblematico, che dice molto sulla continuità dello Stato, di uomini e apparati, e sul trasformismo delle classi dirigenti e di tanti loro funzionari.
Di fronte a questo giudice, il prigioniero appartiene a un altro mondo morale, a un altro universo di valori, totalmente contrapposto e inconciliabile, anche se Gramsci stesso in alcuni momenti pare quasi dimenticarlo, finendo per cadere vittima del suo avversario che si presenta sotto le mentite spoglie di un quasi alleato. Di fronte a Macis e a tutto il sistema di potere fascista, Gramsci appare ancora di più come un gigante, dotato di una forza straordinaria che gli proviene dai suoi ideali e dalla convinzione che con il proprio modo di agire egli debba dare un esempio a tutti i militanti, i lavoratori, gli antifascisti (e anche questo – spiega Giacomini – contribuisce al ritardo di quella partenza che avrebbe forse scongiurato l’arresto, cosa che non avvenne perché Gramsci doveva parlare alla Camera contro le leggi eccezionali), e che gli consente di sopportare, con quella che l’Autore giustamente definisce una “resistenza eroica”, le torture psicologiche e non solo dei suoi carcerieri.
Giacomini infatti ci restituisce la materialità della condizione di detenuto di Gramsci e le strategie del potere fascista volte a fiaccarne la resistenza, cosa di cui egli stesso è consapevole. Le guardie carcerarie – dice Gramsci a un compagno di prigione, Giovanni Lay – sono “strumenti di un potere che sa quel che vuole da noi. Che rinunciamo ad essere dei combattenti, che ci umiliamo” (pag. 206). Di qui un insieme trattamenti che si configurano come vera e propria tortura, sebbene “a bassa intensità”: i rumori notturni per impedire a Gramsci di dormire procurandogli un forte esaurimento nervoso; prima ancora, le incredibili modalità del trasferimento da Ustica a Milano e di lì a Turi, che gli provocano un “fuoco di sant’Antonio”; appena giunto in carcere, la sistemazione in una cella con quattro ammalati di tubercolosi; fino ad arrivare al cibo con insetti che gli sarà servito alla clinica Cusumano, e soprattutto alle mancate cure di fronte a uno stato di salute che andava costantemente deteriorandosi.
Ma la tortura è anche psicologica e ha l’obiettivo di far sentire a Gramsci una condizione di isolamento, di distanza dai suoi cari e dal suo partito, per indurlo infine a cedere, a presentare quella richiesta di grazia che costituiva l’obiettivo precipuo di Mussolini e che per il dirigente comunista sarebbe equivalsa – sono le sue parole – a “un suicidio”, e che è dunque ciò che egli cerca di evitare – e vi riesce – con tutte le sue forze. Dal libro di Giacomini emerge cioè in modo chiaro quel contrasto insanabile di volontà che caratterizzò tutta la vicenda carceraria di Gramsci, concludendosi con la morte (ma anche, paradossalmente, con la vittoria) del prigioniero.
In questo contesto l’Autore colloca l’azione di provocatori come Romani, Scucchia e altri, che mira a separare Gramsci dagli altri detenuti politici. E in questo quadro c’è la strumentalizzazione della lettera di Grieco, che – scrive Giacomini – “fu un’arma usata contro Gramsci per cercare di staccarlo dal suo partito, isolarlo, demoralizzarlo”, spingerlo a fare richiesta di grazia. Al prigioniero il giudice Macis fece credere che la lettera stesse influendo negativamente sulle sue sorti: non tanto nel processo – come pure si continua a scrivere – visto che l’istruttoria si era già conclusa (e non a caso la lettera di Grieco non è tra gli incartamenti processuali), quanto nel far fallire la trattativa in corso per la sua liberazione, di cui però – come Giacomini dimostra – Grieco e Togliatti erano ignari, poiché essa era stata tentata dal governo sovietico con la mediazione del Vaticano attraverso uno scambio di prigionieri col governo italiano ma era stata stroncata da Mussolini in persona nell’ottobre 1927, mentre la lettera risale al marzo 1928.
La missiva di Grieco dunque non influì sull’istruttoria – già chiusa il 20 febbraio 1928 – né sulla trattativa, arenatasi già prima. Di quest’ultima cosa, però, come rileva l’Autore, Gramsci non era a conoscenza. Di qui, e in seguito alle provocatorie allusioni di Macis, i suoi sospetti, che poi diventeranno i sospetti di Tania e delle altre sorelle Schucht, fino a giungere ai vertici del Comintern, provocando una sorta di inchiesta su Togliatti (e su Grieco), che finirà in una bolla di sapone.
La cosa per certi versi stupefacente, però, è che questi sospetti – su cui già negli anni Settanta le ricerche di Paolo Spriano avevano fatto chiarezza – sono poi giunti fino a noi, alimentati da libri più o meno fantasiosi, che non hanno portato alcun nuovo elemento di fatto, basandosi perlopiù su ipotesi e interpretazioni, spesso anche distorcendo i fatti stessi. Di qui le illazioni sui “due carceri di Gramsci” (quello fascista e quello comunista), o sulla sua presunta “rottura col comunismo”, col Pcd’I, con l’Urss, con l’Internazionale.
Al contrario, ciò che gli studi scevri da pregiudizi confermano è proprio la persistenza del legame tra Gramsci e quello che era il suo mondo; un legame organico, che resiste fino alla fine della vita del prigioniero, e certamente biunivoco. Da parte del movimento comunista, dell’Urss e del partito italiano, Gramsci non sarà mai abbandonato, come dimostrano i ripetuti tentativi di trattativa per la sua liberazione, le campagne stampa internazionali (e Giacomini dimostra come quella legata alla pubblicazione del rapporto del dr. Arcangeli ebbe solo effetti positivi, contribuendo al trasferimento di Gramsci dal carcere di Turi alla clinica Cusumano di Formia), lo stesso pagamento delle costose cure mediche, effettuato dal Comintern tramite Sraffa.
D’altro canto, il legame resta vivo anche da parte di Gramsci, che a Turi continua a operare come un dirigente del partito – e a tale proposito è molto bello il capitolo sulle “lezioni di Turi”, il corso di formazione che il leader comunista riesce a organizzare in carcere nel 1931 –, e in questa veste rilancia la proposta dell’Assemblea Costituente come parola d’ordine sulla base della quale costruire alleanze e contribuire alla caduta del fascismo, coi comunisti che avrebbero dovuto avere un ruolo di avanguardia, continuando poi a lavorare nell’ambito della rivoluzione democratica per rendere possibile una prospettiva socialista. Non si tratta dunque di una conversione di Gramsci alla democrazia senza aggettivi o dell’abbandono degli obiettivi rivoluzionari, ma piuttosto di una strategia simile a quella usata dai bolscevichi nel febbraio 1917 e a quella che Togliatti, Longo e Secchia porteranno avanti nel 1943-47, dalla Resistenza alla svolta di Salerno, all’Assemblea Costituente effettivamente conquistata nel 1946. In questo senso, il contributo decisivo di Gramsci alla storia anche successiva del Pci e alla strategia della “via italiana al socialismo” risulta ampiamente confermato.
Né Gramsci “rompe” con l’Urss o col Comintern. Il rapporto con Sraffa è per lui anche un canale diretto col movimento comunista; e ancora nel 1937, il paese per il quale il prigioniero presenta domanda di espatrio è l’Unione Sovietica.
Tutto ciò non significa che siano mancate differenze di vedute tra Gramsci, il partito italiano, quello sovietico, l’Internazionale. D’altro canto, proprio chi pensa che ogni divergenza implichi necessariamente una rottura mostra di avere una concezione “monolitica” del movimento comunista, la cui vita e la cui articolazione sono molto più complesse. Significa invece che Gramsci rimase fino alla fine un militante e dirigente comunista, e proprio a questa sua identità, a questo carattere fondamentale del suo essere attribuì un’importanza maggiore della vita stessa. È dunque il rispetto che si deve alla sua figura e alla sua memoria che imporrebbe, o almeno suggerirebbe, di evitare ricostruzioni fantasiose volte a negare questo elemento. Il libro di Ruggero Giacomini contribuisce invece a documentare tale acquisizione, e dunque a consolidarla, e questo non è certo il minore dei suoi meriti.

 

 
   
             
                 

Tutti i diritti riservati © 2013 www.centrogramsci.it | Webmaster Maurizio Ceccio