DOCUMENTI IN REDAZIONE

Letture consigliate

 

Loading

               

LETTURE CONSIGLIATE

 
           

L'ITALIA DEI MARINES

 

 

Fonte: Internazionale dell'8-14 novembre

 

di David Vine, Tom Dispatch, Stati Uniti.

 

La percentuale di forze statunitensi in Europa di stanza sul territorio italiano è triplicata dal 1991. Washington cambia strategia. E Roma l’asseconda.

Negli ultimi vent’anni il Pentagono ha investito centinaia di milioni di dollari versati dai contribuenti statunitensi in basi militari i...
n Italia, trasformando il paese in un centro sempre più importante per la potenza bellica statunitense. Soprattutto dopo l’inizio della guerra al terrorismo nel 2001, i militari hanno spostato il loro centro di gravità europeo: dalla Germania, dove dalla fine della seconda guerra mondiale stazionava la maggioranza delle forze statunitensi, al sud del continente. Il Pentagono ha trasformato la penisola italiana in una piattaforma di lancio per le future guerre in Africa, in Medio Oriente e altrove. Nelle basi di Napoli e Aviano, a Pisa, a Vicenza, in Sicilia e in altre località i militari statunitensi hanno speso, nel secondo dopoguerra, più di due miliardi di dollari solo per le opere edilizie, a cui vanno aggiunti miliardi di dollari destinati a progetti segreti, spese operative e costi del personale. Mentre gli effettivi in Germania sono diminuiti – da 250mila al momento del crollo dell’Unione Sovietica ai circa 50mila di oggi – il numero di soldati statunitensi di stanza in Italia (circa 13mila più 16mila fa- miliari) è lo stesso che all’apice della guerra fredda. Questo significa che la percentuale di forze statunitensi in Europa che fanno base in Italia è triplicata rispetto al 1991, passando da circa il 5 per cento a più del 15 per cento. A settembre ho avuto la possibilità di visitare la più recente base americana in Italia, operativa da appena quattro mesi e che si trova a Vicenza, non lontano da Venezia. Ospita una forza di reazione e intervento rapido – la 173a brigata di fanteria aviotrasportata combattente – e la componente dell’esercito dell’Africa command (Africom). Si estende per un chilometro e mezzo, dominando la città: con i suoi 60 ettari, è grande all’incirca quanto 110 campi da football americano. La spesa per questa base e per gli edifici relativi, in una città che già ospitava almeno altre sei strutture militari, ha superato i 600 milioni di dollari a partire dall’anno finanziario 2007. La Germania è ancora il paese in cui le basi sono più numerose, e quindi riceve la percentuale più alta delle spese militari statunitensi all’estero (fino a poco tempo fa erano destinate all’Afghanistan). Ma il ruolo dell’Italia è diventato cruciale da quando il Pentagono lavora per cambiare la composizione del suo schieramento globale – oltre 800 basi – spostando la sua attenzione a sud e a est rispetto al centro dell’Europa. L’esperto di basi Alexander Cooley spiega: “I funzionari della difesa americana riconoscono che la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo e vicino al Nordafrica, la dottrina antiterrorista dei militari italiani e l’atteggiamento favorevole alle forze statunitensi dei politici italiani sono fattori importanti nella decisione del Pentagono di mantenere” una presenza nel paese. Le sole persone che sembrano aver prestato attenzione a questo rafforzamento militare sono i mili- tanti dei movimenti di opposizione locali, come quelli di Vicenza, preoccupati che la loro città possa diventare la piattaforma di future guerre di Washington.
Da Vicenza a Sigonella I turisti pensano all’Italia come alla terra dell’arte rinascimentale, delle antichità ro- mane e ovviamente del buon cibo. Pochi la considerano la terra delle basi americane. Ma i 59 “siti dove si trovano basi” individuati dal Pentagono in Italia sono inferiori solo a quelli di Germania (179), Giappone (103), Afghanistan (cento, ma in diminuzione) e Corea del Sud (89). In pubblico le autorità statunitensi dichiarano che in Italia non esistono basi americane. Ripetono che le guarnigioni, con tutte le infrastrutture, le armi e gli equipaggiamenti, sono semplici ospiti di quelle che ufficialmente restano basi italiane destinate alla Nato. Ovviamente si tratta di una sottigliezza legale. Chiunque abbia occasione di visitare la nuova base di Vicenza non ha dubbi sul fatto che si tratti di una struttura interamente statunitense. La guarnigione occupa una ex base dell’aero- nautica italiana chiamata Dal Molin (alla fine del 2011 le autorità italiane l’hanno ribattezzata caserma Del Din, nel tentativo di cancellare il ricordo della forte opposizione suscitata dalla base). Dall’esterno potrebbe sembrare un gigantesco complesso ospedaliero o un campus universitario. Trentuno edifici simili a scatole, color crema e pesca e con il tetto rosso chiaro domi- nano l’orizzonte. Sullo sfondo solo le pendici delle Alpi meridionali. Un reticolo sormontato da filo spinato circonda il perimetro, con schermi a maglie verdi che impediscono di guardare all’interno. Dentro ci sono due caserme in grado di ospitare fino a 600 soldati ciascuna (fuori della base l’esercito sta contrattando l’affitto di circa 240 case di recente costruzione). Ci sono anche due garage di sei piani che possono contenere 850 vetture, una serie di grandi complessi di uffici, alcune piccole aree di addestramento, compreso un poligono di tiro al coperto ancora in costruzione, una palestra con piscina riscaldata, il centro di intrattenimento Warrior zone, un piccolo spaccio, un bar e una grande mensa. In realtà sono impianti piuttosto modesti per una grande base statunitense. Molti degli alloggi ristrutturati o di nuova costruzione, le scuole, le strutture medi- che, i negozi e altri servizi per i soldati e le loro famiglie si trovano dall’altra parte della città, presso la base della caserma Ederle in viale della Pace, e nel vicino Villaggio della Pace. Il Pentagono ha anche speso cifre enormi per ammodernare alcune basi italiane. Fino all’inizio degli anni novanta la base aerea di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia, era un piccolo sito noto come Sleepy hollow (la valle addormentata). Dopo il trasferimento degli F-16 dalla Spagna nel 1992, l’aviazione ha speso almeno 610 milioni di dollari in oltre 300 progetti di costruzione (Washington ha convinto la Nato a fornire più della metà della cifra, e l’Italia ha ceduto gratuitamente 85 ettari di terreno) per trasformarla in uno scalo e in un grande centro di raccolta per le operazioni belliche importanti, a partire dalla prima guerra del Golfo. Parallelamente, dall’anno fiscale 2004 l’aeronautica americana ha speso altri 115 milioni di dollari in opere edili. Per non essere da meno, dal 1996 la marina ha sborsato più di 300 milioni di dollari per costruire una nuova base operativa presso l’aeroporto di Napoli, nelle cui vicinanze ha affittato per trent’anni un “sito di supporto” del valore stimato di 400 milioni di dollari. Somiglia a un grande centro commerciale circondato da una distesa di prati ben curati (è stata costruita da un’azienda sospettata di legami con la camorra). Nel 2005, poiché l’interesse si andava spostando dall’Atlantico settentrionale ad Africa, Medio Oriente e mar Nero, la marina ha trasferito il suo quartier generale europeo da Londra a Napoli. Dopo la creazione di Africom, che ha in Germania la sede principale, Napoli oggi ospita un comando Naveur-Navaf, cioè Naval forces Europe più Naval forces Africa. Nel frattempo è cresciuta la centralità della Sicilia nella guerra globale al terrore, e il Pentagono sta trasformando la regione in un nodo cruciale per le operazioni militari statunitensi in Africa, sull’altra sponda del Mediterraneo. Dall’anno finanziario 2001 il Pentagono ha investito nella base aerea di Sigonella quasi 300 milioni di dollari, più che in qualunque altra base italiana eccetto Vicenza. Sigonella, che oggi è la seconda stazione aeronavale più trafficata d’Europa, fu usata per la prima volta nel 2002 per lanciare i droni di sorveglianza Global Hawk. Nel 2008 le autorità statunitensi e italiane hanno firmato un accordo segreto che autorizzava ufficialmente il dispiegamento dei droni nella base. Da allora il Pentagono ha sborsato almeno 31 milioni di dollari per costruire un complesso destinato alla manutenzione e alle operazioni dei Global Hawk. I droni sono il fondamento dell’Alliance ground surveillance della Nato, un sistema da 1,7 miliardi di dollari che garantisce all’alleanza atlantica capacità di sorveglianza fino a diecimila miglia da Sigonella. Dal 2003 la Joint task force aztec silence usa gli aerei di sorveglianza P-3 di stanza a Sigonella per controllare i gruppi di ribelli nell’Africa settentrionale e occidentale. E dal 2011 Africom ha assegnato alla base una task force di circa 180 marines e due velivoli per fornire addestramento antiterrorismo al personale militare africano in Botswana, Liberia, Gibuti, Burundi, Uganda, Tanza- nia, Kenya, Tunisia e Senegal. Sigonella ospita anche una delle tre strutture di comunicazioni satellitari del Global broadcast service e presto accoglierà una base Nato congiunta di intelligence, sorveglianza e ricognizione e un centro di addestramento e di analisi dei dati. A giugno una sottocommissione del senato statunitense ha raccomandato di trasferire in Sicilia le forze operative speciali e i Cv-22 Ospreys dal Regno Unito, per- ché “Sigonella è diventata una piattaforma di lancio cruciale per le missioni legate alla Libia, considerando anche il persistente disordine in quel paese così come la comparsa di attività di addestramento terrori- stico nel Nordafrica”. Nella vicina Niscemi, la marina spera di costruire un impianto di comunicazioni satellitari ad altissima frequenza, anche se alcuni siciliani e italiani si oppongono al progetto, preoccupati per gli effetti delle radiazioni elettromagnetiche sugli esseri umani e sulla riserva naturale circostante.
Flessibilità operativa Contemporaneamente il Pentagono ha chiuso alcune basi, tra cui quelle di Comiso, Brindisi e La Maddalena. L’esercito ha tagliato parte del personale a Camp Darby, una grande installazione sotterranea per l’immagazzinamento di armi ed equipaggiamenti lungo la costa toscana, ma la base è ancora un centro logistico e di preposizionamento molto importante, perché con- sente il dispiegamento globale di truppe, armi e rifornimenti via mare. Dall’anno fiscale 2005 nella base sono sorte nuove costruzioni per quasi 60 milioni di dollari. Ma a cosa servono tutte queste basi sul territorio italiano? Ecco come la questione mi è stata spiegata da un funzionario militare statunitense in Italia che ha chiesto di rimanere anonimo: “Mi dispiace, Italia, ma questa non è la guerra fredda. Le basi non sono qui per difendere Vicenza da un attacco sovietico. Sono qui perché abbiamo concordato che devono essere qui per fare altre cose, che si tratti del Medio Oriente, dei Balcani o dell’Africa”. Le basi in Italia giocano un ruolo sempre più importante nella strategia globale del Pentagono grazie soprattutto alla collocazione del paese sulla cartina geografica. Durante la guerra fredda il cuore della difesa Nato e statunitense in Europa era la Germania Ovest, per la sua posizione lungo le rotte più probabili di un attacco sovietico all’Europa occidentale. Finita la guerra fredda, l’importanza geografica della Germania è molto diminuita. Di fatto, le basi e le truppe statunitensi al centro dell’Europa sembravano prigioniere della loro stessa geografia, con le forze terrestri che dovevano prevedere tempi di spiegamento più lunghi al di fuori del continente e l’aviazione che doveva ottenere diritti di sorvolo dai paesi vicini per raggiungere qualunque altro luogo. Le truppe di stanza in Italia, invece, hanno accesso diretto alle acque e allo spazio aereo internazionali del Mediterraneo. Come disse nel 2006 l’assistente segretario dell’esercito Keith Eastin parlando al congresso, dislocare la 173a brigata aviotrasportata al Dal Molin “posiziona strategicamente l’unità a sud delle Alpi con accesso immediato allo spazio aereo internazionale per un rapido spiegamento e operazioni di ingresso forzato o di ingresso precoce”. Il Pentagono approfittò della posizione dell’Italia già negli anni novanta, quando la base di Aviano giocò un ruolo di rilievo nel- la prima guerra del Golfo e durante gli interventi Nato e americani nei Balcani. L’amministrazione Bush, a sua volta, scelse alcune basi in Italia come avamposti euro- pei “duraturi” nel riposizionamento a sud e a est della Germania. Negli anni di Obama, il crescente coinvolgimento militare in Africa ha reso l’Italia un’opzione ancora più appetibile. Oltre che per la sua posizione, le autorità statunitensi prediligono l’Italia perché, come mi ha detto lo stesso funzionario militare, è “un paese che offre sufficiente flessibilità operativa”. In altri termini, garantisce la libertà di fare ciò che si vuole con restrizioni e interferenze minime. Soprattutto rispetto alla Germania, la flessibilità italiana rispecchia le ragioni del- la più ampia tendenza ad allontanare le basi da due dei paesi più ricchi e più potenti del mondo – Germania e Giappone – verso nazioni relativamente più povere e meno potenti. Oltre a garantire costi operativi più bassi, questi paesi ospitanti di regola sono più sensibili alle pressioni politiche ed economiche di Washington. Tendono anche a firmare “accordi sullo status delle forze” – le intese che regolano la presenza di truppe e basi statunitensi all’estero – meno restrittivi per i militari americani. Questi accordi spesso offrono normative più permissive in materia di ambiente e di lavoro o assicurano al Pentagono maggiore libertà di perseguire azioni militari unilaterali con minime consultazioni con il paese ospitante. Anche se difficilmente può essere considerata una delle nazioni più deboli del mondo, l’Italia è il secondo paese più indebitato d’Europa, e il suo potere economico e politico impallidisce in confronto a quello della Germania. Non sorprende, quindi, come ha sottolineato il funzionario del Pentagono, che l’accordo sullo status delle forze stipulato con la Germania sia lungo e dettagliato, mentre l’accordo fondamentale con l’Italia rimane il breve (e tuttora segreto) accordo bilaterale sulle infrastrutture del 1954. I tedeschi tendono anche a essere piuttosto esigenti quando si tratta di rispettare le regole, mentre gli italiani, ha detto il funzionario, “ne danno una lettura più interpretativa”. La libertà con cui i militari statunitensi usarono le basi italiane durante la guerra in Iraq è un esempio illuminante. Il governo italiano permise alle forze americane di utilizzarle anche se il loro uso per una guerra condotta al di fuori della Nato può violare i termini dell’accordo del 1954. Un telegramma segreto del maggio 2003 inviato dall’ambasciatore statunitense in Italia, Mel Sembler, e reso pubblico da Wikileaks, mostra che il governo di Silvio Berlusconi concesse al Pentagono “in pratica tutto” quello che voleva. “Abbiamo ottenuto quello che chiedevamo”, scrisse Sembler, “per l’accesso alle basi, il transito e il sorvolo, garantendo che le forze possano attraversare agevolmente l’Italia per arrivare ai luoghi di combattimento”.
Il business delle armi Da parte sua l’Italia sembra aver diretta- mente beneficiato di questa cooperazione (secondo alcuni, spostare le basi dalla Germania al paese mediterraneo doveva essere anche un modo per punire Berlino del suo mancato appoggio alla guerra in Iraq). Secondo uno studio del Jane’s sentinel security assessment del 2010, “il ruolo dell’Italia nella guerra in Iraq, con i tremila uomini messi a disposizione dell’iniziativa guidata dagli Stati Uniti, ha aperto la possibilità di contratti di ricostruzione alle aziende italiane, oltre a cementare i rapporti tra i due alleati”. Il suo ruolo nella guerra in Afghanistan ha sicuramente offerto vantaggi simili. Queste opportunità sono arrivate mentre la crisi economica si aggravava e in un momento in cui il governo italiano guardava alla produzione di armi come a uno strumento importante per rilanciare la sua economia. Secondo il Jane’s sentinel i produttori di armi italiani, come Finmeccanica, hanno tentato con forza di entrare nel mercato statunitense e non solo. Nel 2009 le esportazioni italiane di armi erano aumentate di oltre il 60 per cento. Nell’ottobre 2008 i due paesi hanno rinnovato un “memorandum d’intesa concernente il reciproco procurement per la difesa” (un accordo di “nazione maggiormente favorita” per le vendite militari). È stato suggerito che il governo italiano può aver ceduto Dal Molin ai militari americani – a titolo gratuito – anche per assicurarsi un ruolo di primo piano nella produzione “dell’arma più costosa mai costruita”, il cacciabombardiere F-35, e in altri accordi militari. Un entusiastico telegramma del 2009, a firma dell’incaricata di affari dell’ambasciata statunitense a Roma Elizabeth Dibble, definiva la collaborazione militare tra i due paesi una “partnership durevole”. Dibble osservava in particolare che Finmeccanica (per il 30 per cento controllata dallo stato) “nel 2008 ha venduto agli Stati Uniti equipaggiamenti militari per 2,3 miliardi di dollari e ha un ruolo di rilievo nella solidità del rapporto tra Stati Uniti e Italia”. Naturalmente c’è un altro motivo da non da trascurare negli investimenti italiani del Pentagono. Proprio come i turisti americani che affollano il paese, i soldati statunitensi apprezzano la dolce vita. Oltre a godere di tutti i comfort delle basi di stile suburbano, 40mila visitatori militari pro- venienti dall’intera Europa e da altri continenti si recano ogni anno nel “resort” militare di Camp Derby e nella “spiaggia americana” della riviera italiana, che accresco- no ancora di più le attrattive del paese. L’Italia non prenderà il posto della Germania come fondamento della potenza militare statunitense in Europa. La Germania è da tempo profondamente integrata nel sistema militare americano, e i pianificatori strategici non vogliono che la situazione cambi. Ricordate l’argomento usato dal Pentagono per convincere il congresso a investire 600 milioni di dollari in una nuova base a Vicenza e nelle relative costruzioni? L’esercito aveva bisogno di portare soldati dalla Germania a Vicenza per concentrare la 173a brigata in un solo luogo. E poi nel marzo scorso, una settimana dopo aver avuto accesso al primo edificio a Dal Molin e a lavori quasi ultimati, l’esercito ha annunciato che non avrebbe trasferito l’intera unità. Un terzo della brigata rimarrà in Germania. In un periodo in cui i tagli di bi- lancio, la disoccupazione e la stagnazione economica colpiscono tutti tranne i più ricchi e impediscono di soddisfare i bisogni di molti statunitensi, a fronte di un investimento di 600 milioni di dollari solo mille soldati si trasferiranno a Vicenza. Ma anche se queste truppe restano in Germania, l’Italia è destinata a diventare uno dei cardini della potenza bellica degli Stati Uniti a livello globale. Sebbene sia stato soprattutto “l’asse asiatico” di Barack Obama ad attirare l’attenzione, il Pentagono sta concentrando le sue forze in basi che rappresentano altrettanti assi in località come Gibuti nel Corno d’Africa, Diego Garcia nell’oceano Indiano, Bahrein e Qatar nel golfo Persico, Bulgaria e Romania nell’Europa dell’est, Australia, Guam e Hawaii nel Pacifico, e Honduras in America Latina. Le basi statunitensi in Italia rendono più facile condurre nuove guerre e interventi militari in conflitti di cui gli americani sanno poco, dall’Africa al Medio Oriente. Se noi americani non cominciamo a chiederci perché gli Stati Uniti hanno ancora basi in Italia e in decine di altri paesi in tutto il mondo – ed è incoraggiante che un numero crescente di politici, giornalisti e altri stiano sollevando la questione – queste basi contribuiranno a portarci, in nome della sicurezza, su una strada di violenza perpetua, guerra perpetua e perpetua insicurezza.

 

 

 
   
                   

Tutti i diritti riservati © 2013 www.centrogramsci.it | Webmaster Maurizio Ceccio