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I  NUOVI  COMMESSI  DELLA  BORGHESIA  DOMINANTE di Piero De Sanctis

Ancora una volta, dopo l’incauto ed infelice tentativo di qualche anno fa del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, quando organizzò un Convegno sul concetto di egemonia di Gramsci, sono scesi in campo alcuni improvvisati scrittori, noti, soprattutto, per la loro fedeltà al governo fascista della Meloni. È il caso del giornalista e conduttore televisivo Alessandro Giuli, che si distingue, per la scarsa conoscenza della materia trattata, con il suo libretto: Gramsci è vivo.

Eppure, forse il Giuli non lo sa, Benedetto Croce sulla Voce (La cultura italiana del ‘900), fin dal 1911, proclamò la «la morte del socialismo». Si trattava di un suo personale contributo alla lotta contro le teorie marxiste e socialiste dell’epoca, accusate di essere, nel migliore dei casi, astratte e mitologiche. Ma il feudatario Croce fece molto di più. Dopo la ridicola “marcia su Roma” del ’22, a sostegno del fascismo mussoliniano, Croce concesse tre lunghe interviste: la prima al Giornale d’Italia del 27 ottobre 1923 dal titolo inequivocabile Nessuna contraddizione tra liberalismo e fascismo; la seconda al Corriere Italiano, del primo febbraio 1924, dal titolo, ancora più impegnativo, Il fascismo ha sottoposto l’Italia a una benefica cura; la terza al Giornale d’Italia del 9 luglio 1924, dal titolo Il fascismo ha fatto molto di buono. Anche Croce, dunque, è stato, al pari del Giuli, su un livello molto più alto, un intellettuale organico, legato all’imperialismo fascista. Dice Gramsci: «il Croce, specialmente, si sente legato fortemente ad Aristotele e Platone, ma egli non nasconde, anzi, di essere legato ai senatori Agnelli e Benni e in ciò appunto è da ricercare il carattere più rilevato della filosofia del Croce».

Non fu una pura casualità, se quest’ultima intervista del Croce fu concessa ad un mese esatto di distanza dall’assassinio, per mano fascista, del socialista Giacomo Matteotti. Si trattò, invece, di una meditata e convinta adesione al fascismo, quale risposta armata necessaria alla rivoluzione socialista del ’17. Dunque, gran parte della cultura italiana dell’epoca scelse il “nuovo” corso politico. Una scelta opportunistica, conservatrice e reazionaria, mascherata da ragioni ideali, mentre la violenza fascista e quella dello Stato, infierivano violentemente contro le organizzazioni dei lavoratori e, contro il neonato Partito Comunista d’Italia.

«Gli intellettuali – dice Gramsci – sono i commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico». Questi intellettuali sono essenziali, per avere il consenso delle grandi masse della popolazione all’indirizzo della politica governativa, sia sotto l’aspetto economico che su quello repressivo poliziesco. La loro presenza e azione in tutti i gangli della società sono richieste e ben pagate soprattutto, oggi, in una situazione di crisi e di guerra. La riduzione del Parlamento italiano a mero corpo consultivo, senza influenza reale sul governo, senza potere d’iniziativa e di controllo, è il prodotto della lotta tra la classe capitalistica industriale e la classe finanziaria-militare. Gli enormi superprofitti, esentasse, delle maggiori banche da una parte e, dall’altra, la chiusura di interi settori industriali, dimostrano chi comanda in Italia. Ebbene, i commessi sono chiamati a nascondere questa realtà.

Alcuni storici italiani amano dire che il vero fondatore del Pcd’I non fu Gramsci, ma Bordiga, poiché al Congresso di Livorno, del 1921, ne assunse la direzione, ma dimenticano di aggiungere, volutamente, che il Bordiga, in poco più di un anno di direzione, trasformò il partito in una setta di talmudisti.  È, come dire, che la fondazione del partito bolscevico POSDR di Russia non fu di Lenin, ma di Trotski. Il napoletano Bordiga aveva trasformato il partito in una sorta d’ufficio, dove i compagni più preparati e responsabili venivano trasformati in passivi esecutori di ordini, non rifuggendo a metodi burocratici e camorristici. Bordiga cercava di isolare Gramsci nel partito presentandolo come intellettualmente incapace di qualsiasi azione. La realtà ha fatto, poi, giustizia di queste calunnie. Le cronache giornalistiche del tempo raccontano che all’inizio della guerra contro l’Etiopia del 1936, Bordiga aveva partecipato ad una festa religiosa, era stato benedetto dal prete insieme ai soldati in partenza per l’Etiopia, e all’uscita dalla chiesa era passato sotto l’arco formato dai pugnali di un drappello di militi fascisti che gli rendeva gli onori. Nel 1937, mentre Gramsci moriva nelle galere fasciste, egli viveva tranquillo a Napoli, protetto dalla polizia fascista, ma odiato dagli operai come traditore trotskista.

Per salvare il partito dalle secche del settarismo e del dogmatismo, Gramsci dispiegò, dal 1924 al 1926, un eccezionale lavoro teorico-pratico, per riconquistare i migliori compagni. Sono di questo periodo gli scritti di Gramsci dedicati a delucidare le questioni teoriche della natura del partito, della sua strategia, della sua tattica e della sua organizzazione. Tra queste c’è il concetto teorico di Egemonia, cioè il legame indissolubile tra la pratica rivoluzionaria della classe operaia e la teoria del marxismo. È un concetto che già Marx aveva notato come fondamentale durante la rivoluzione parigina del 23 febbraio 1848, allorquando i rivoluzionari parigini cercarono di «rovesciare lo Stato borghese». Il governo provvisorio di coalizione che si insediò proclamò subito diritto al lavoro, democrazia politica e sociale, suffragio universale, officine statali sovvenzionate dallo Stato, riduzione della giornata lavorativa dalle 12 ore a 10, imposta progressiva sul reddito. Una dialettica, dunque, tra la struttura produttiva e la sovrastruttura ideale. Fu il primo esempio storico di egemonia della classe operaia. Anche Gramsci ne dà un esempio nel suo scritto La questione meridionale quando afferma «il proletariato può diventare classe dirigente egemone nelle misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice». In questo quadro dell’alleanza tra la classe operaia e le masse lavoratrici del Mezzogiorno, si inserisce il grande movimento dei Consigli di fabbrica torinesi il cui significato fondamentale non fu altro che la lotta per attribuire alla classe operaia l’egemonia della vita nazionale. Ristabilire questa unità ha un valore decisivo per il movimento dei lavoratori. Isolare l’economia e il cristallizzarsi nell’organizzazione professionale – dice Gramsci – come fanno i sindacalisti, è altrettanto sbagliato e dannoso quanto isolare la politica, e il cristallizzarsi nell’esteriorità parlamentare, come fanno i riformisti.

Questa inscindibile unità di teoria e pratica rivoluzionarie, che si chiama egemonia, è il faro che ha illuminato e dominato tutta la vita e la lotta di Marx e di Gramsci, per la presa del potere politico da parte della classe che produce la ricchezza nazionale. Dunque, concludendo, quale egemonia può essere quella di cui parla il Giuli, se non quella di una occupazione familiare-militare dei posti di governo e di sottogoverno?

 

Teramo 14 agosto 2024

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