CONTRO L’EVASIONE FISCALE MONOPOLISTA di Erman Dovis e Danilo Sarra
Si sta discutendo in questi giorni di lotta all’ evasione fiscale; una questione importantissima, che fino a poco tempo fa sembrava castrata e soffocata dallo scandalismo di vario genere e dalla xenofobia inoculata nella società, di matrice culturale monopolista che ha nell’estrema destra il suo portavoce ufficiale.
Il dibattito sulla lotta all’evasione fiscale rientra invece appieno nella tradizione del socialismo, che vuole “portare avanti chi nasce indietro” (cit.) e che identifica nei grandi monopolisti il primo bastione da espugnare per rimodellare l’intera società su di un piano di sempre più vasta giustizia sociale. Il tema merita estrema attenzione poiché, oltre a sottrarre risorse allo stato sociale, è all’origine dello sfruttamento schiavistico dei milioni di lavoratori agricoli delle nostre campagne e dello stato di totale povertà di milioni di famiglie italiane e dei loro bambini.
Oggi il modo di produzione capitalistico è di carattere monopolistico-finanziario, e l’attuale fase mostra senza possibilità di smentita una condizione in cui anche lo Stato è parte integrante dello sfruttamento monopolistico. Un’azione capillare, che mostra la fine del carattere storico dello Stato nazione, e vede anzi lo Stato diventare mercenario per conto dei grandi miliardari privati. Dunque in questo contesto nessun senso ha la demagogia nazionalistica (o sovranista, come va di moda oggi) che sbandiera il tricolore del corporativismo, illudendo le masse di tornare ai tempi del piccolo commercio e della piccola produzione localistica. Come hanno scritto gli esemplari compagni Pietro Scavo ed Ennio Antonini in “Decentramento produttivo e Partito Comunista” (Edizioni Nuova Unità): “Questo desiderio, però, non è solo irrealizzabile, perché indietro la storia e la società non tornano e il capitalismo, che ha già avuto la sua giovinezza ed è oggi vecchio e decrepito, non può tornare giovane: ma anche perchè questo desiderio neoliberista – in realtà – significa lasciare ugualmente via libera ai gruppi capitalisti più forti per dominare tutta l’economia nazionale. Il desiderio di questi ideologi borghesi, perciò, non è altro che il grande desiderio dei gruppi monopolisti e non quello dei piccoli produttori. Questi ideologi sostengono una critica piccolo borghese al capitalismo contemporaneo, non comprendendone l’attuale fase di sviluppo e quindi senza riuscire a coglierne la portala storica. Essi sviluppano il lato debole dell’economia politica piccolo borghese, l’utopia reazionaria della possibilità di far tornare indietro la storia, abbandonando la grande produzione, che assicura una produttività del lavoro più elevata, con al centro la piccola produzione industriale che si fonda con l’artigianato. L’economia politica piccolo borghese esprime l’ideologia dei piccoli produttori sottoposti ad un bestiale sfruttamento indiretto dai monopoli e dalla politica finanziaria dei governanti, ma in definitiva questa ideologia che critica indirettamente i monopoli non fa altro che spalancare loro definitivamente le porte”.
Noi affermiamo che la crisi è sempre il risultato della contraddizione tra il carattere sociale della produzione e la forma capitalistica privata di appropriazione della ricchezza prodotta. Le crisi di sovrapproduzione relative che ne derivano spingono il monopolista ad investire in attività non produttive, diremmo finanziarie. Una prima manifestazione dell’aggravamento della crisi è infatti la crescita sproporzionata del capitale finanziario rispetto alla produzione dei beni materiali. Questa crescita dimostra che i profitti aziendali vengono investiti, in gran parte, nelle attività finanziarie e speculative, anziché nell’allargamento della base produttiva e per la crescita dell’occupazione. Le bolle speculative, i paradisi fiscali, il nero colossale prodotto dalle multinazionali sono il risultato della corsa al massimo profitto del capitalismo e dell’impoverimento delle popolazioni. Esse rappresentano una forma esterna della crisi, una derivazione, non il suo contenuto vero.
Dice a proposito lo scrittore giornalista inglese Nicholas Shaxson, nel suo libro Le isole del Tesoro pubblicato da Feltrinelli nel 2012, che «I paradisi fiscali hanno a che fare di norma con l’evasione: dalle leggi, dai creditori, dalle tasse, in sintesi con ogni controllo e verifica democratica; e hanno avuto un ruolo decisivo in tutti i maggiori eventi economici contemporanei, compresa la crisi attuale esplosa nel 2008, fungendo spesso da basi per le lobby che hanno spinto a rimuovere i regolamenti finanziari preesistenti e a tagliare le tasse per i più ricchi in tutto il mondo».
Persino gli economisti come Thomas Piketty e studiosi come Jean Ziegler e il sopracitato Shaxon, registrano la tendenza di un costante impoverimento e indebitamento degli Stati e delle masse popolari a favore di uno sproporzionato arricchimento di un manipolo di privati; circa 1000 privati posseggono l’80% della ricchezza mondiale, rigorosamente stipata in paradisi fiscali e lontana da ogni forma di controllo pubblico e di tassazione. Paradisi fiscali sparsi in tutto il mondo e presenti anche qui, in Europa. Il denaro accumulato illegalmente dalle grandi famiglie monopoliste, e nascosto nei paradisi fiscali, secondo recenti studi ammonta ad una cifra che è di circa 12 volte il prodotto reale mondiale, quasi un milione di miliardi di dollari. Il FMI attraverso un recentissimo studio, ha dimostrato come le multinazionali abbiano nascosto nei paradisi fiscali qualcosa come 15 trilioni di dollari, e abbiamo motivo di ritenere che la cifra sia stimata per difetto.
E’ la tendenza all’accumulazione monopolista privata che toglie risorse allo stato sociale, alla cura dell’ambiente, allo sviluppo delle piccole realtà produttive e più in generale al progresso delle società. Una tendenza che non riguarda la dimensione degli Stati nazionali, divenuti impotenti di fronte alla potenza finanziaria dei grandi colossi multinazionali. Un’accumulazione monopolista che si realizza su base globale e che raggira con facile astuzia le leggi dei singoli Stati, costringendo così i governi ad una maggiore pressione fiscale ai danni dei lavoratori. Sono i lavoratori i primi a subirne le conseguenze, e per ogni euro dei milioni di miliardi stipati nei paradisi fiscali c’è un lavoratore costretto a piegare la schiena. Si innesca nei fatti la medesima dinamica subita dai contadini del Fucino durante il fascismo: costretti da una parte a produrre barbabietole per il padrone Torlonia e dall’altra, indebitati, a richiedere prestiti alla banca degli stessi Torlonia, risultandone così doppiamente oppressi, prima sul terreno produttivo materiale e poi su quello finanziario degli interessi da pagare. Doppia oppressione, stesso padrone. Tuttavia, ritornando all’odierno dibattito in Italia, occorre che le forze del socialismo e del progresso democratico procedano con molta prudenza, valutando attentamente il rapporto di forze reali ed il contesto generale.
L’Amministrazione Trump, non più espressione del popolo americano, ma diretta emanazione del Complesso Militare Industriale, ha finanziato con milioni e milioni di milioni di dollari l’estrema destra dei paesi strategici del mondo, scatenando una offensiva restauratrice su vasta scala: Cile, Ecuador, Brasile sono caduti sotto i colpi orchestrati dai cartelli monopolisti trumpiani. Il Perù è in pieno caos politico , tentativi di destabilizzazione attentano alla Bolivia del neo-riconfermato Presidente Morales. Il Venezuela al momento resiste, ma non ci è dato sapere ancora per quanto, di certo i lavoratori di quel paese danno dimostrazione di resistenza e combattività esemplari.
In Europa l’assalto di Trump per mano dell’estrema destra ha rafforzato il regime ucraino e ungherese, consolidato quello polacco, si è esteso ai paesi baltici e si affaccia in Europa occidentale. Le bande naziste scorrazzano in Germania dove i partiti populisti, sovranisti e di estrema destra attaccano culturalmente e politicamente la democrazia borghese. In Francia il movimento nazionalista, populista e qualunquista dei Gilet Gialli ha chiaramente tentato un colpo di stato da destra ai danni del governo Macron, con i falchi Bannon, Trump e Le Pen in cabina di regia. In Spagna il movimento neofranchista VOX aumenta i consensi. In Gran Bretagna addirittura il Parlamento è stato sospeso in quanto la democrazia rappresentativa ostacolava il progetto di Brexit che tanto piace a Washington.
In Italia abbiamo vissuto un governo giallo-verde diretto da Bannon per conto di Trump, laddove il populismo leghista ed il qualunquismo pentastellato venivano presentati dal falco di estrema destra Steve Bannon come elementi “antisistema di rottura” della politica tradizionale. In realtà, per politica tradizionale si intendevano quelle culture politiche costituzionali emerse e cementate dalla lotta di Resistenza al nazifascismo.
Il governo egemonizzato dall’estremismo neofascista della Lega si è rivelato espressione diretta di interessi padronali ed ha svelato all’opinione pubblica il carattere tipicamente eversivo dei fascisti contro la Costituzione antifascista e contro la democrazia: vedesi i “pieni poteri” che reclamava Salvini dopo i suoi palesemente antidemocratici e discriminatori decreti sulla sicurezza, la sua politica di odio xenofobo presentata per “diritto alla sicurezza”.
La caduta del governo e l’allontanamento della Lega hanno prodotto un respiro, di sollievo.
In questo momento il Governo Conte ed il Presidente Mattarella sono assediati da una offensiva presidenzialista, plebiscitaria ed estremista: accerchiato dall’estremismo di Casapound, Salvini e Meloni da una parte e dal qualunquismo di Di Maio e dal renzismo di ritorno dall’altra. Il pericolo di un putsch è più reale che mai.
La prospettiva realistica, razionale della lotta all’evasione deve tener conto della situazione concreta, pur cogliendo la natura e la soluzione del problema. Giusto condurre questa battaglia, ma senza lasciarsi trasportare da emendamenti o proposte fuori dalla portata delle forze politiche e culturali del socialismo e della democrazia. Potrebbero rivelarsi boomerang, un passo demagogico più lungo della gamba, che favorirebbe un ribaltone politico di stampo ultra-reazionario. Le posizioni euroscettiche che mirano alla demolizione dell’unità europea per un cieco o reazionario ritorno ai singoli Stati nazionali in concorrenza tra di loro sono espressione ultima della strategia monopolista di Wall Street. Esse hanno lo scopo di balcanizzare, non hanno altra conseguenza che legittimare e rafforzare l’accumulazione monopolista, aprendo le porte delle democrazie alla più selvaggia speculazione privata che agisce globalmente. Quale modello di società propongono i cosiddetti “sovranisti”? Si parla, in modo generico, di un ritorno in auge della cosiddetta “economia nazionale tradizionale” e di un ambiguo invito agli “investimenti stranieri”; il che in termini poveri si traduce, nel contesto di un’economia globalizzata, in un maggiore e più selvaggio e indisturbato dominio monopolista; dunque, abbassamento dei salari, ulteriori picconate allo Stato Sociale e avvilimento dei diritti dei lavoratori. L’Europa va invece difesa e condotta sulla strada della trasformazione nella direzione della giustizia sociale e della redistribuzione della ricchezza, di una confederazione sociale e socialista, a favore del progresso dei popoli che la abitano. La svolta di Maastricht del 1992 è il segno di un mutamento sopravvenuto nei rapporti di forza internazionali conseguenti alla demolizione dell’Unione Sovietica: è, in altri termini, non il compimento fatale di un processo insito nel concetto di Europa e avviatosi con la costituzione della Ceca, ma una deviazione che rispecchia quel mutamento di rapporti di forza tra le classi. E’ sul piano prima continentale e poi internazionale che i grandi evasori possono essere combattuti con tangibile efficacia dai singoli Stati. Per cui operare nel senso di un’Europa sociale e socialista, democratica e inclusiva, che veda incarnati quei principi presenti nella nostra Costituzione antifascista, è un percorso lungo e difficoltoso, ma tassativo. E’ la base indispensabile anche per una politica fiscale antimonopolista. I comunisti, i socialisti, i sinceri democratici di buon senso sanno benissimo che oggi non sono più di moda gli sciocchi volontarismi e trasognati idealismi. La realtà è qui, vive e si muove nonostante noi, e non siamo noi, con meri atti di volontà, a determinarla. Essa ci lega, ci costringe, ci chiama ad un’azione trasformatrice. Disoccupazione, povertà, migrazioni forzate, guerre, sfruttamento intensivo delle risorse naturali ci chiamano ad una repentina responsabilità, a non tirarci indietro, a cogliere ogni minimo segnale positivo che vada nella direzione della difesa e dell’avanzamento dei lavoratori: questo hanno sempre fatto i comunisti. Nel tumulto di posizioni che animano l’attuale governo, il nostro compito è quello di assumere posizioni sì critiche ma pure di mirare e illuminare arricchendoli quegli aspetti propulsivi che esso contiene – come i propositi per una sanità pubblica più equa o una politica fiscale avversa ai grandi evasori monopolisti – e favorire quegli aspetti, evidenziarli, sostenerli, promuoverli, perché coerenti con l’interesse dei lavoratori, dei pensionati, delle masse popolari. Come sempre, la domanda che i comunisti devono porsi è questa: quale strada per l’emancipazione dei lavoratori?