IL PROBLEMA DI FIUME E IL CIALTRONE GABRIELE D’ANNUNZIO di Piero De Sanctis
Ogni anno il 12 settembre, puntualmente, i fascisti e i nazionalisti celebrano le gesta dell’ “eroe” Gabriele D’Annunzio, “Comandante” della Marcia su Fiume. In realtà la questione fiumana non è stata mai chiarita nei suoi aspetti politici fondamentali. Il “Vate”, il “poeta soldato”, il “Comandante”, come amava definirsi, il 12 settembre 1919, da Ronchi presso Trieste, alla testa di un gruppo di ex-combattenti e di fanatici ed esaltati nazionalisti (oggi sovranisti), invase illegalmente e senza trovare nessuna resistenza la città di Fiume. Il 30 agosto 1920 nel Teatro di Fiume proclamò la Reggenza italiana del Carnaro, nella quale governò come dittatore ed iniziò una violentissima propaganda, appoggiata da tutte le forze nazionalistiche più estreme, contro il governo Nitti. Il complesso problema adriatico, dopo la caduta del ministero Orlando, venne ereditato dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, il quale comprese che l’unico modo per risolverlo era quello d’iniziare trattative dirette con la Jugoslavia. Ma l’11 maggio 1920, per non aver ricevuto la fiducia delle Camere, il governo si dimise. Seguì il quinto ministero di Giolitti che entrò in carica dopo pochi giorni.
Il problema di Fiume nasce prima della prima guerra mondiale. Già all’inizio del Novecento i governi e le classi dominanti dell’Inghilterra, della Francia, della Germania, dell’Italia, dell’Austria e della Russia avevano condotto una politica coloniale di rapina, di oppressione delle nazioni deboli straniere, di soffocamento del movimento operaio. L’Inghilterra voleva predare le colonie della Germania e la Turchia; la Francia mirava all’Alsazia e alla Lorena fino alla riva destra del Reno; l’Italia mirava all’Albania e a parte dei territori dell’Asia minore. Proprio questa politica predatoria continua e si sviluppa nella prima guerra mondiale.
Proprio nei cinquant’anni a cavallo del Novecento si sviluppano la grande produzione industrialee la nascita degli imperialismi, con grandi concentrazioni industriali e finanziarie, con i cartelli e i trust e con la conseguente ricerca di nuovi mercati, di nuove colonie, di fonti energetiche e di materie prime. Ma la concorrenza e la ricerca del massimo profitto dividono gli imperialisti che si trovano a diversi grandi di sviluppo delle loro economie. La spartizione del bottino di guerra, dunque, non poteva non avvenire secondo i relativi rapporti di forze. L’imperialismo più forte ne prende un’aliquota maggiore e quella migliore, agli altri il restante. E dal momento che l’imperialismo italiano, definito «l’imperialismo della povera gente», era il più debole nei confronti degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia, toccò alcuni avanzi, come in effetti si stabilì durante la Conferenza di Pace di Parigi il 18 gennaio 1919.
Nell’ambito di detta conferenza, alla quale parteciparono, per la prima volte nella storia, soltanto i rappresentanti dei paesi vincitori (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia), uno dei più spinosi problemi destinato a produrre effetti negativi sulla politica interna in Italia, fu proprio la cosiddetta Questione Adriatica concernente l’assegnazione al nostro paese dei territori previsti dal Patto di Londra del 1915, Patto che non prevedeva l’annessione di Fiume all’Italia ma alla Croazia. I primi ministri, Clemenceau Georges per la Francia, Lloyd George per la Gran Bretagna, durante i negoziati riuscirono ad imporre la loro volontà per quanto riguardava la spartizione della Germania e delle sue colonie africane; mentre lasciarono che il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, che non aveva mai riconosciuto, accettato e sottoscritto il Patto segreto di Londra, si opponesse ostinatamente all’Italia nella questione adriatica, cioè sul contrasto sorto tra l’Italia e il neonato stato jugoslavo nei riguardi della città di Fiume e della Dalmazia. A complicare ulteriormente la posizione dei negoziatori italiani alla Conferenza di pace di Parigi sopraggiunse la questione di Fiume. Il Consiglio nazionale di questa città, abitata in maggioranza dagli italiani, mentre l’impero asburgico si sfasciava, il 30 ottobre 1918, chiese che la città fosse unita all’Italia anziché alla Jugoslavia. Pertanto la richiesta dei negoziatori italiani fu: “Londra più Fiume”. Richiesta tanto assurda quanto fuori dalla realtà, poiché la situazione europea e mondiale del 1919 non era più quella del 1915: l’Impero austro-ungarico si era sfasciato, non esisteva più, ed era sorto sull’Adriatico il nuovo regno serbo-croato-sloveno. Di fronte a questa nuova richiesta la posizione di Wilson fu di netta chiusura. Allora la delegazione italiana, composta principalmente dal primo ministro Orlando e da Sonnino, abbandonò la Conferenza, con scarsosenso del reale, e in segno di protesta tornò in Italia, accolta da grandi manifestazioni di solidarietà. I nazionalisti esultarono. Sonnino deplorò tutte quelle agitate manifestazioni, Orlando le esaltò: «L’Italia conosce la povertà – disse -, conosce la fame, ma non conosce il disonore». D’Annunzio e Mussolini sollecitarono allora il governo ad annettersi d’imperio Fiume e la Dalmazia. D’Annunzio dichiarò: «Non ho mai sentito tanto profondo l’orgoglio di essere italiano». Aggiunse anche che di fronte a questa annessione la Conferenza sarebbe stata impotente poiché si poneva «contro una nazione vittoriosa, anzi contro la più vittoriosa di tutte le nazioni, anzi contro la salvatrice di tutte le nazioni».
Ma alla Conferenza di Parigi la delegazione italiana era totalmente disunita: Sonnino rimaneva rigidamente ancorato al Patto di Londra, convinto che la sicurezza militare, che il Patto prevedeva e garantiva, compensasse il sacrificio di Fiume; mentre per Orlando era esattamente il contrario essendo molto sensibile alle richieste del movimento nazionalista. La proposta più significativa, ma non accolta, fu quella di dare a Fiume lo statuto di territorio libero, come Danzica, sotto il controllo della Società delle Nazioni, e piani analoghi furono abbozzati per Zara e Sebenico, le due città dalmate che più delle altre avevano conservato il loro carattere italiano. Ma il 4 aprile del 1919, come abbiamo già detto, la delegazione italiana decise di abbandonare la Conferenza e di tornare in Italia.
Ma cosa prevedeva questo Patto segreto di Londra concluso fra gli alleati e l’Italia il 26 aprile 1915? Gli alleati garantivano all’Italia il Tirolo meridionale con Trento, tutto il litorale adriatico, la parte settentrionale della Dalmazia con le città di Zara e Spalato, la parte centrale dell’Albania con Valona, le isole dell’Egeo presso le coste dell’Asia Minore, e inoltre una lucrosa concessione ferroviaria nella Turchia asiatica. Questi acquisti territoriali superavano di parecchie volte ogni pretesa nazionale che l’Italia avesse mai manifestata, suscitando irritazione e malcontento da parte della Jugoslavia che definì il trattato un brutale piano di rapina.
Con il Trattato di Saint-Germain (una località nei pressi di Parigi), tra l’Austria e i paesi vincitori, del 10 settembre 1919 si sanzionò definitivamente lo smembramento della vecchia monarchia austro-ungarica e si fissarono i nuovi confini degli stati nazionali vecchi e nuovi: la Repubblica d’Austria (piccolo territorio di 84.000 km2 abitato solo da tedeschi; il Regno d’Ungheria; la Repubblica cecoslovacca abitata da cechi con minoranza tedesca; la Slovacchia abitata da slovacchi con minoranze ungheresi e ucraine; il Regno di Jugoslavia (comprendente, oltre alla Serbia e Montenegro, i territori della Bosnia, Erzegovina, Croazia, Slovenia, Voivodina e Dalmazia). Vennero inoltre assegnate la Galizia alla Polonia e la Bucovina e la Transilvania alla Romania. All’Italia vennero assegnate la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia. Rimase in sospeso la questione di Fiume e della Dalmazia. Furono proprio questi ultimi avvenimenti a scatenare, da parte dei nazionalisti e dei fascisti, una campagna di odio e di tradimento contro il governo Nitti. Fu proprio in questo momento che nacque la parola d’ordine fascista della «vittoria mutilata».
La «marcia di Ronchi», prevista in un primo tempo verso la fine di novembre (dopo le elezioni politiche nazionali dello stesso mese) fu poi anticipata al 12 settembre 1919, in seguito al precipitare della situazione determinata dall’ordine del comando supremo di ridurre il contingente di stanza a Fiume, come previsto dagli accordi internazionali. A quasi un anno dal suo inizio, il colpo di mano fiumano mostrava ormai tutta la sua inconsistenza. «La gravissima situazione economica della città – dice R. De Felice – e la dilagante indisciplina dei legionari…nonché la nuova situazione internazionale che si andava delineando con l’inizio delle trattative dirette tra Roma e Belgrado imponevano ormai la ricerca di un accordo».
Nitti, che ebbe notizia dell’entrata di D’Annunzio a Fiume la sera del 12 settembre, fu sorpreso dal facile successo dell’impresa dannunziana. Venti anni dopo rievocando quegli avvenimenti scrisse: «D’Annunzio profittò del malcontento e, nel settembre del 1919, tentò un colpo di mano di accordo con alcuni nuclei militari. Parve una improvvisazione e non era, o almeno la improvvisazione era solo nella scelta del momento e delle circostanze. Seppi solo dopo, e anch’essa dopo, ciò che avevo ignorato. Si trattava di una vera cospirazione con il consiglio e l’aiuto di alcuni generali e ufficiali superiori…Quello che avveniva non poteva avvenire senza la protezione e la complicità dei capi militari. Io ho la sicurezza che il generale Diaz e il ministro della guerra Albricci furono come me ingannati. L’inganno non venne da D’Annunzio ma da ufficiali dell’esercito attivo e soprattutto da alcuni capi. D’Annunzio sembrò il creatore del movimento e certo contribuì a crearlo, ma fu anche e soprattutto l’esecutore di una situazione che era all’infuori di lui» (F. S. Nitti, Rivelazioni, Ed. Laterza 1963). In altre parole D’Annunzio fu l’inconsapevole burattino nelle mani dei burattinai degli Stati Maggiori militari italiani.
Il 12 novembre 1920, sotto il ministero Giolitti, si svolse a Rapallo la conferenza italo-jugoslava che si concluse con un accordo che dava all’Italia il confine dello spartiacque alpino fino al monte Nevoso e con esso tutta l’Istria, faceva di Fiume uno stato indipendente e lasciava allo stato serbo-croato-sloveno la Dalmazia tranne la città di Zara, riunita all’Italia. Il trattato di Rapallo venne accolto positivamente da tutte le forze politiche con eccezione dei nazionalisti. Lo stesso Mussolini tradì D’Annunzio dichiarandosi sostanzialmente soddisfatto. Il “Comandante” decise però di non piegarsi e di negare ogni validità all’accordo di Rapallo. Giolitti, che da tempo voleva liquidare la questione di Fiume, incaricò allora il generale Enrico Caviglia di dirigere l’operazione militare per la eliminazione della sedizione dannunziana. Di fronte al persistente rifiuto di D’Annunzio il generale ordinò il cannoneggiamento del palazzo del “Comandante”. Le operazioni di guerra iniziate alle ore 5 del mattino del giorno 24 dicembre 1920 (Natale di sangue), culminarono il pomeriggio del 26, allorché la nave Andrea Doria eseguì con un pezzo da 152 un tiro contro il palazzo del “Comandante”, colpendo la finestra della sua stanza di lavoro. Dopo 4 giorni di combattimento e la morte di 53 uomini, trattò subito la resa. D’Annunzio che aveva più volte giurato di versare il suo sangue per Fiume (o Fiume o morte!), insieme ai suoi legionari fascisti, decise prudentemente di cedere dichiarando: «la mia vita non vale la pena di gettarla oggi in servizio di un popolo che non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie natalizie la sua ingordigia » (N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925). Racconta Carlo Emilio Gadda, in uno dei suoi scritti, che il Vate, preso da grande paura, si mise in salvo rifugiandosi in un convento di suore travestito da suora. Il 5 gennaio 1921 cominciò l’esodo da Fiume dei cosiddetti legionari dannunziani che andarono a rafforzare le squadre fasciste. Il 18 gennaio 1921 anche D’Annunzio lasciò Fiume. Con l’accordo italo-jugoslavo di Roma del 27 giugno 1924 Fiume tornò all’Italia.
Forse nessuno meglio di Gaetano Salvemini ha saputo tratteggiare nella sua essenza la figura di D’Annunzio e la sostanza del movimento nazionalista: «Il movimento nazionalista – dice Salvemini – fu sempre sostenuto finanziariamente dai fabbricanti d’armi e quegli altri industriali che facevano i loro affari a spese dei consumatori e dei contribuenti, grazie ai dazi protettivi ed ai contratti col governo, e trovò simpatia e appoggi negli Stati Maggiori della Guerra e della Marina…Nel 1897, preso dalla scarlattina elettorale, si fece eleggere deputato e andò a sedere all’estrema destra. Nel1890 passò improvvisamente all’estrema sinistra: «io vado» disse «verso la vita». Dal 1900 al 1914 si atteggiò ad aedo di una nuova Italia imperiale e pagana. Il dilettante di emozioni sadiche non vide nella guerra del 1914 che un’orgia di sangue, di voluttà, di morte. Era un caso di teratologia morale…Ma il bellicismo estetico e sanguinario di D’Annunzio fece strage nella jeunessedorée, fra i piccoli borghesi letteratoidi che credevano di diventare superuomini solo che rimasticassero i detti del poeta imaginifico…Nessun altro paese ebbe, come l’Italia, la sciagura di essere rappresentato durante la guerra e dopo nel mondo intellettuale da un poeta disceso così in basso nella scala della perversità morale e della mediocrità artistica » (G. Salvemini, La politica estera italiana dal 1871 al 1915, Feltrinelli 1970).
L’impresa fiumana fu ragione di profondo turbamento perla vita politica italiana. Lo storico meridionalista antifascista Guido Dorso scrisse: «L’uso della violenza privata fu ben presto imitato e da quel momento non fu più possibile pensare alla democrazia, poiché era stato sancito il principio che un privato poteva far uso di milizie proprie per risolvere un problema politico…Il principio del fascismo era dunque in nuce e non c’è da meravigliarsi se dopo tre anni abbia dato i suoi frutti».
Un esempio eccellente di applicazione del materialismo storico e di sinteticità è fornito dall’articolo che Gramsci dedica alla questione fiumana dal titolo Fiume, apparso su L’Ordine nuovo l’11 gennaio 1921. Dopo aver criticato l’insipienza e l’opportunismo del gruppo dirigente del Partito socialista italiano per essersi limitato (e a cavarsela sempre), per ogni avvenimento che scuota le basi stesse dello Stato borghese, ad affermazioni generiche di propaganda elementare, Gramsci aggiunge: «Gli avvenimenti di Fiume, per un anno intero, hanno tenuto col respiro sospeso lo Stato italiano. Negli avvenimenti di Fiume era la conclusione logica dell’ideologia bellica; nel d’annunzianesimo era la conclusione logica dello sviluppo storico di una classe sociale, la piccola borghesia urbana, che temeva di essere liquidata dalla posizione di guida e arbitra dei destini della nazione, che si era conquistata durante la guerra. Per un anno intero Fiume è stata la freccia nel fianco dello Stato borghese: Fiume impedì che venisse conchiusa la pace con la Jugoslavia; Fiume fece lacerare un trattato; Fiume condusse lo Stato fin sull’orlo di una nuova guerra; Fiume era la quotidiana, clamorosa prova delle condizioni di debolezza, prostrazione, di incapacità funzionale dello Stato borghese italiano. Lo Stato non poteva avere una politica estera propria indipendente e non poteva avere una propria politica interna; lo Stato era paralizzato, era in completo sfacelo, dal momento che si dimostrava, sperimentalmente, come fossero sufficienti pochi privati cittadini per incantarne gli ingranaggi più delicati e vitali…». L’articolo prosegue e si conclude con ciò che il Partito socialista italiano avrebbe dovuto fare e non fece. Esso «si mantenne in una sterile posizione negativa; il partito si limitò a versare torrenti di parole rivoluzionarie senza concretezza politica».
Teramo 29 Febbraio 2020