L’AFGHANISTAN E LA DESTRA INTERNAZIONALE di Danilo Sarra ed Erman Dovis
“Andiamo incontro a una nuova era oscura, in tutta Europa c’è una crescente diffusione di nuove forme di fascismo, dovute anche alle imposizioni del capitalismo finanziario: iniquità, durezza delle tasse e ristrettezze hanno reso milioni di persone incazzate. Questa insofferenza viene utilizzata come esca da gruppi nazionalisti e fascisti o dal fondamentalismo religioso. L’Europa è piena di angry kids, ma attenzione, andiamo nella direzione sbagliata. Infatti, mi sembra di ricordare che Gramsci diceva qualcosa del tipo che non ci sarà mai cambiamento senza la cultura della classe operaia, la cultura dei lavoratori”.
Bobby Gillespie, leader e cantante dei Primal Scream, storico gruppo rock scozzese.
La ignominiosa fuga che conclude 20 anni di occupazione militare americana in Afghanistan è un avvenimento di estrema importanza paragonabile a quello della disfatta americana in Vietnam.
Il governo di Ashraf Ghani, messo su e sostenuto dal più potente esercito mondiale, americano, nella notte prima della disfatta, è scappato con quattro automobili piene d’oro in direzione Emirati Arabi, che ricorda la fuga dei Savoia dell’8 settembre 1943.
E’ troppo presto per fare una analisi politica complessiva della vicenda afghana, e per dire se si tratti di un movimento di liberazione dal punto di vista dell’interesse popolare rispetto all’ imperialismo, oppure no; sarà il tempo a dirci se il ritorno dei talebani afghani sarà una tragedia umanitaria che va a sommarsi a venti anni di occupazione militare americana oppure potrà iniziare un periodo di progresso e stabilità.
Le destre nazionaliste occidentali, intanto, sventolando lo spauracchio della immigrazione, trovano dai recenti fatti in Afghanistan nuova linfa per rinnovare la loro propaganda, riuscendo ancora una volta a caratterizzare in larga misura il dibattito politico.
C’è una tendenza culturale profondamente reazionaria che guida i processi storici e le dinamiche odierne. Il ritorno del fondamentalismo in Medio Oriente si lega ai governi di estrema destra dell’Est Europa come Ucraina, Polonia, Ungheria che si contraddistinguono per un fanatismo nazionalista e per un identitarismo medievale. Tratti caratteristici sono le discriminazioni e le persecuzioni verso il debole di turno; il razzismo dilagante e le leggi promulgate contro i diritti del lavoro e i sindacati; leggi persino contro il diritto alla salute, come il divieto del diritto di aborto.
In Grecia sembra essersi persa la memoria storica recente: nel paese sottomesso dalle iniquità economiche del potere monopolistico, si buttano soldi per costruire muri anti-migranti.
La situazione è estremamente preoccupante anche in Europa dell’Ovest: in Italia i neofascisti di Fd’I e i fondamentalisti razzisti della Lega hanno circa il 42% di voti, tra crociate contro poveri e migranti e continui assalti a sindacati e welfare state (vedasi l’odio di classe con cui cercano di estirpare il reddito di cittadinanza. F’dI e Lega ne chiedono l’abolizione, la reintroduzione totale di voucher e di misure di precariato insieme alla completa detassazione per aziende e datori di lavoro).
In Spagna il neofranchismo di Vox alza i toni, in Francia da tempo all’estrema destra della Le Pen si sono aggiunti i famosi Gilet Gialli, movimento piccolo-borghese nato da rivendicazioni di carattere bottegaio e nazionalista che col tricolore in mano piangeva la patria tradita da Macron.
Il punto è proprio questo: come si diceva prima, la debolezza e la pericolosità di questa tendenza generale è lo sbocco a cui viene indirizzata, che va verso la reazione estrema, perché il potere dominante è riuscito a far si che le persone abbiano una percezione di sé non più come classe, ma come entità nazionale e nulla più. In questo contesto, risulta facile per il potere strumentalizzare il tutto e portare il sottoproletario a protestare, alzando il tricolore contro quattro disgraziati che arrivano a Lampedusa spinti da fame, privazioni e guerre.
Riprendiamo l’Afghanistan come esempio (ma potremmo prendere la Palestina, l’Egitto, il Marocco, l’Iraq…) e facciamo un paragone: la rivolta, la protesta e la proposta di cambiamento in questo paese da quasi trent’anni si distingue per un tenebroso ritorno al Medioevo, tra emiri, fondamentalismi, diritti acquisiti cancellati, opere d’arte saltate in aria. La stessa proposta di cambiamento negli anni 60 e 70 produceva una coscienza tale da generare l’abolizione della monarchia (1973) e successivamente misure di carattere democratico e sociale (distribuzione delle terre, sindacati legalizzati, voto alle donne…)
Secondo noi ogni nuovo ordinamento politico economico che va costruendosi si dota di regolamenti e di culture specifiche che lo rispecchiano e che lo contraddistinguono. Per capire come stanno trasformando la società in senso restauratore e dove la stanno portando, basta vedere sotto quale bandiera si svolgono le lotte oggi: di nuovo la religione, il nazionalismo.
La tendenza politico economico culturale attuale inizia secondo noi alla fine degli anni 70 con l’ascesa di Reagan e di M. Thatcher. Gli anni 80 furono caratterizzati da una forte carica di valori tipici delle classi dominanti borghesi, sul piano internazionale e locale. Intorno al presidente Reagan e al Primo Ministro inglese Thatcher si consolidarono tutti quei settori reazionari che volevano affermare l’esclusiva logica del profitto. Liberisti dunque in campo economico. Si iniziò una battaglia politica e culturale per l’affermazione dei loro valori economici, per intaccare e poi sconfiggere il riferimento politico economico emerso dopo la seconda guerra mondiale che riservava al welfare state un ruolo centrale nell’economia ( pur tra contraddizioni dovute alla forza o alla debolezza dei singoli stati capitalistici nazionali) , questo grazie ai sindacati ed ai partiti di sinistra ma anche ai partiti democratici, o parte di essi, di ispirazione liberale e cattolica.
Questa cultura si espandeva in altri continenti pur esprimendosi nelle particolari condizioni di un specifico paese; vedansi l’Egitto di Nasser o le guerriglie latinoamericane.
I valori del “libero mercato”, fatti passare per valori di libertà, produssero tre grosse spallate al movimento operaio e democratico: la sconfitta operaia della Fiat nel 1980, la sconfitta dei minatori inglesi a metà anni ottanta e la sconfitta del socialismo reale contro Solidarnosc in Polonia sempre in quel periodo.
Queste vittorie di “libertà” nel giro di pochi anni fecero crollare fisicamente non solo il socialismo reale, ma anche tutte le idee e le organizzazioni legate ad esse, perfino il tanto demonizzato riformismo socialdemocratico.
Dagli anni 90 in poi si afferma definitivamente e si rafforza sempre più l’idea reaganiana dell’assolutismo monopolista, della centralità del profitto e del mercato su tutto, che subordina ad esso il lavoro e l’uomo, divenuti semplici variabili del processo produttivo e fardelli da sopprimere.
Dal punto di vista economico, un passo ulteriore a rafforzare tale vittoria è stata la consacrazione definitiva del decentramento produttivo come organizzazione del lavoro, volto da un lato a rompere le grandi concentrazioni operaie ed a spezzettare e dividere i lavoratori e il loro potere contrattuale; dall’altro a facilitare il dominio e la dipendenza monopolista rispetto a quella che viene definita “piccola e media industria”.
Dal punto di vista politico, la rispondenza al decentramento produttivo è stata la balcanizzazione di Stati come la Jugoslavia, la Libia, la Siria, il Medioriente con la creazione di emirati, per indebolirli e meglio condizionarli economicamente.
In questa fase l’assalto alla parcellizzazione e alla scomposizione si manifesta attraverso l’attacco all’Unione Europea ed all’Europa: facendo leva su oggettive difficoltà e su regolamentazioni che privilegiano oggettivamente chi detiene il potere economico, l’Amministrazione Trump, facendosi portavoce degli interessi monopolistici, ha iniziato ad attaccare l’UE, per ritorno genuino ad una Europa di stati e staterelli. Un attacco identitario e nazionalistico che ha fatto breccia grazie a ingenti finanziamenti ai gruppi di estrema destra sparsi in Europa a cui ingenuamente si sono accodati residuali gruppuscoli di estrema sinistra (si dichiarano comunisti) che spingono sulla rottura dell’Ue innalzando la bandiera nazionale.
In realtà un comunista sa bene che non si va avanti parcellizzando balcanizzando e ritornando agli emiri e ai granducati, ma occorre invece lottare con le forze democratiche per governare il processo politico, o comunque per limitare certi poteri che si affermano nella UE.
Questi desideri di ritorno al passato sono infatti demagogici e pericolosi perché la storia non torna indietro e perché il capitalismo non può tornare ai tempi iniziali:
“Il desiderio neoliberista del piccolo è bello significa lasciare ugualmente via libera ai gruppi capitalisti più forti per dominare tutta l’economia nazionale. Il desiderio di questi ideologi borghesi, perciò, non è altro che il grande desiderio dei gruppi monopolisti e non quello dei piccoli produttori. Questi ideologi sostengono una critica piccolo borghese al capitalismo contemporaneo, non comprendendone l’attuale fase di sviluppo e quindi senza riuscire a coglierne la portala storica. Essi sviluppano il lato debole dell’economia politica piccolo borghese, l’utopia reazionaria della possibilità di far tornare indietro la storia, abbandonando la grande produzione, che assicura una produttività del lavoro più elevata, con al centro la piccola produzione industriale che si fonda con l’artigianato. L’economia politica piccolo borghese esprime l’ideologia dei piccoli produttori sottoposti ad un bestiale sfruttamento indiretto dai monopoli e dalla politica finanziaria dei governanti, ma in definitiva questa ideologia che critica indirettamente i monopoli non fa altro che spalancare loro definitivamente le porte”. (Pietro Scavo e Ennio Antonini, Decentramento produttivo e Partito comunista, edizioni di Nuova Unità.)
Noi riteniamo dunque che la tendenza dominante nella società internazionale sia quella di una continua frammentazione e di una progressiva conflittualità, di carattere prevalentemente nazionalistico e regionalistico, mentre le mani dei monopolisti afferrano porzioni sempre più crescenti di ricchezza ai danni dei popoli. La ricchezza prodotta si accumula sempre più in poche mani. Via via più uniti dal generale impoverimento effetto della crisi monopolista, invece di muoversi nella direzione di una lotta sempre più unitaria si va verso la parcellizzazione. I popoli si dividono. I partiti della sinistra e del centro-sinistra invece di operare pazientemente in vista dell’unità trovano sempre nuovi pretesti per contrapporsi ed isolarsi. Sul terreno sindacale e su quello culturale, a sinistra, accade lo stesso. In Italia, ad esempio, non è un caso che proposte per l’unità delle forze democratiche e di sinistra arrivino da due organizzazioni storiche come la Cgil e l’Anpi, le uniche forse che hanno tuttora un legame con il secolo scorso, organiche dunque al lungo processo storico che ha portato all’attuale crisi monopolista; invece di essere assecondate e approfondite, queste proposte vengono o eluse o sviluppate solo localmente. Intanto le destre avanzano. Non solo da un punto di vista elettorale ma pure egemonico: i dibattiti e le coscienze sono sempre più orientati sulle loro posizioni, mentre ovunque i lavoratori lottano, spesso impotenti, per la difesa del lavoro. La ratio dei comunisti dovrebbe essere, specie nella fase attuale, quella di cercare e di stabilire le interconnessioni invece delle divergenze, e questo a tutti i livelli, locale, nazionale, internazionale.