STORIA DI UNA VERITÀ DIMENTICATA di Piero De Sanctis
Da quando al mondo vivono capitalisti e operai
non è mai apparso un libro che per gli operai
fosse così importante come questo.
(F. Engels, Studi sul Capitale, Ed. Rinascita, 1954)
Nella sua prefazione al libro Nuovo Compendio del Capitale del sociologo Domenico Moro, il grande storico Nicola Tranfaglia (morto il 23 luglio 2021), così sintetizza le ragioni per le quali si sono abbandonati gli studi sul pensiero marxiano: « Negli anni del grande sviluppo economico che ha caratterizzato il paese dopo la ricostruzione del dopoguerra con i comunisti italiani tra i protagonisti della trasformazione sociale e culturale che ha fatto dell’Italia uno dei dieci più industrializzati del pianeta, sono stati numerosi gli studi e i dibattiti sull’opera di Carlo Marx e sulle sue interpretazioni. Ma alla fine degli anni Settanta, ha avuto inizio un periodo in cui il pensiero di Marx è stato a poco a poco accantonato soprattutto grazie alla crisi che ha vissuto il Partito Comunista Italiano che – erroneamente – ha messo insieme l’esigenza politica di allontanarsi dal vecchio legame di ferro con il partito della Unione Sovietica all’interesse scientifico e culturale per l’opera marxiana.
Né si può dire che gli studiosi legati al Pci, se si escludono alcune rare eccezioni (Ludovico Geymonat: Attualità del materialismo dialettico del 1974, ndr), abbiano proseguito il loro lavoro di ricerca e di analisi di quel pensiero. Gli eredi del Pci, soprattutto quelli approdati a poco a poco nel Partito dei Democratici di sinistra e poi nei Democratici di sinistra, hanno cercato piuttosto la loro ispirazione in altri autori: in quelli liberali e democratici ancor più che in quelli della socialdemocrazia europea…..Abbiamo assistito, negli ultimi vent’anni, a una sorte di oblio del pensiero di Marx nel nostro paese senza che all’opinione pubblica nazionale fosse offerta una spiegazione da parte degli eredi nazionale del Pci. Diretta conseguenza di questo strano processo è stata l’incertezza di una parte rilevante della sinistra italiana ed europea di fronte al fenomeno centrale che ha caratterizzato la mondializzazione dei rapporti economici come di quelli politici e culturali».
Eppure materia su cui riflettere e studiare, in questi ultimi quarant’anni, non è mancata: l’accumulo di ricchezze ad un polo, e miseria crescente dall’altro; negli Stati Uniti, in questi ultimi anni, la quota di utili delle 200 maggiori multinazionali è aumentata in maniera vertiginosa, mentre i salari operai sono scesi ai minimi storici; il rapporto annuale del 2018 del World Economic Forum ci dice che 2.153 super ricchi possiedono quanto 4,6 miliardi di persone, mentre il 50% più povero ha meno dell’1%; la politica di salvataggio delle grandi banche americane da parte del governo si aggira intorno ai 40 miliardi l’anno che, come scrive il Financial Times, è « un settore finanziario ormai fuori controllo che sta divorando l’attuale mercato economico dall’interno, proprio come la larva del pompilide divora l’ospite nel quale è stata deposta»; gli impotenti e inconcludenti vertici dei primi ministri dei paesi occidentali sul clima e il riscaldamento globale del pianeta; il dibattito in corso da anni sulla trasformazione dei sistemi economico-politici in una sorta di oligarchia e sulla compatibilità o meno di principio tra capitalismo e democrazia.
Sono questi i temi e i problemi che lo storico Nicola Tranfaglia ci invita a riconsiderare poiché stanno alla base di questo strano processo che, oltre ad essere quello della mondializzazione e globalizzazione già previste da Marx, affonda le sue radici nella totale incomprensione delle reali ragioni delle crisi periodiche economiche, sempre più devastanti, del sistema produttivo capitalistico. Non è un caso che per spiegare tali crisi i teorici della sinistra non abbiano di meglio che far ricorso agli economisti di formazione borghese, che hanno sempre concepito l’ordinamento capitalistico come forma assoluta e definitiva, anziché come forma storicamente transitiva. Questi economisti, che hanno sempre negato l’esistenza della contraddizione di fondo fra il capitale e il lavoro operaio non pagato, e che quest’ultimo sia la fonte dell’arricchimento smisurato del capitalista, sono stati insigniti con premi Nobel e premiati con incarichi e docenze nelle più grandi e prestigiose università occidentali.
Tale vuoto di pensiero teorico della sinistra non poteva non essere riempito che da vecchie concezioni riproposte sotto nuove forme. La cosiddetta Sintesi neoclassica ( cioè l’unione singolare della teoria neoclassica con quella keynesiana), è stata il coronamento del pensiero economico borghese degli anni 1960. Il ritorno a Keynes, dopo il periodo degli anni Trenta della grande depressione, è stata la manifestazione più significativa del periodo di trasformazione del capitalismo monopolistico in quello monopolistico di Stato. Sono gli anni nei quali gli Stati Uniti hanno vissuto un periodo di ascesa il più lungo dell’ultimo dopoguerra, durato otto anni, ed è stato definito dai sostenitori del keynesismo, come il trionfo della politica economica keynesiana.
Ma le crisi cicliche degli anni 1969 –’71 e ancor più quelle degli anni 1974-’75, si sono incaricate di distruggere gli schemi keynesiani della politica anticiclica, i quali hanno dimostrato la loro non applicabilità nel dominare l’anarchia del sistema produttivo capitalistico. Così, ancora una volta, sotto queste condizioni di assoluta incomprensione della realtà dei nuovi processi economici degli anni ’80, si sono rafforzate le tendenze conservatrici di “destra” al keynesismo contrassegnate da una dura critica all’intervento dello Stato nell’economia, misconoscendo i massicci interventi statali alle grandi multinazionali e le politiche dei governi per salvare le banche “troppo grandi per fallire”.
Come ideologici di primo piano tornarono nuovamente alla ribalta i nomi degli apologeti dell’economia della libera concorrenza e del mercato senza regole, quali von Mises e F. A. Hayek (fondatore della scuola di Chicago) e dichiarati oppositori del socialismo. Questo ritorno alle vecchie teorie economiche è la dimostrazione più palese dell’impotenza di uscire dall’orizzonte borghese nel quale sono imprigionate. Esse furono adottate, senza raggiungere qualche risultato significativo, dal governo Thatcher e negli Stati Uniti dall’amministrazione Reagan, il quale, come esempio concreto di applicazione delle politiche monetaristiche dell’economista Milton Friedman, spostò parte della spesa pubblica dal settore dello stato sociale a quello militare.
Nel suo interessantissimo libro I padroni dell’umanità, Noam Chomsky dice :«….il ruolo della finanza nell’economia è esploso, tanto che la quota di utili delle imprese detenuta dagli istituti finanziari è aumentata vertiginosamente dagli anni Settanta. A ciò fa da corollario lo svuotamento della produzione industriale, che è stata esternalizzata. Tutto questo è il prodotto di una sorta di fanatismo religioso chiamato economia, basato su ipotesi prive di qualunque fondamento teorico e di basi empiriche, ma che risultano molto seducenti perché consentono, una volta adottate, di dimostrare dei teoremi: l’efficienza del mercato, le tesi delle aspettative razionali, e così via».
Ma a Chomsky, che è il maggior linguista vivente, saggista politico e critico feroce delle idee che hanno giustificato da secoli lo sfruttamento capitalistico e le guerre dal Vietnam al Nicaragua, dal Centro America alla Serbia e all’Iraq, sfugge il vero contenuto di questo fanatismo religioso che non è altro la bramosia insaziabile di plusvalore da parte del capitalista. Esso è la chiave per la comprensione dell’intera produzione capitalistica e delle conseguenti crisi. Ma che cosa ha detto Marx sulla teoria del plusvalore visto che le teorie di tutti i suoi predecessori sono scomparse? Il plusvalore non può scaturire dalla circolazione delle merci, perché quest’ultima conosce soltanto lo scambio tra equivalenti; né può sorgere da un aumento dei prezzi perché i guadagni e le perdite reciproche del venditore e del compratore si compensano? Ecco cosa dice Marx in proposito:
«Il plusvalore è prodotto non appena il pluslavoro che è possibile estorcere si trova oggettivato nelle merci. Ma con questa produzione del plusvalore si chiude solo il primo atto del processo di produzione capitalistico, la produzione immediata. Il capitale ha assimilato una quantità determinata di lavoro non pagato. Contemporaneamente allo sviluppo del processo, che si esprime in una diminuzione del saggio del profitto, la massa di plusvalore così prodotta si gonfia all’infinito. Comincia ora il secondo atto del processo. La massa complessiva delle merci, il prodotto complessivo, tanto la parte che rappresenta il capitale costante e variabile, come quella che rappresenta il plusvalore, dev’essere venduta. Qualora questa vendita non abbia luogo, o avvenga solo in parte o a prezzi inferiori a quelli di produzione, lo sfruttamento dell’operaio, che esiste in ogni caso, non si tramuta in un profitto per il capitalista e può dar luogo a una realizzazione nulla o parziale del plusvalore estorto, e anche ad una perdita parziale o totale del suo capitale.
Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo, ma anche della sostanza. Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami della produzione e dalla capacità di consumo della società. Quest’ultima, a sua volta, non è determinata né dalla forza produttiva assoluta, né dalla capacità di consumo assoluta; ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica, che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa è inoltre limitata dell’impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale e ottenere delle quantità sempre più forti di plusvalore».
Il pluslavoro del lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per compensare il salario, è la fonte del plusvalore, dell’”ingrassamento” sempre crescente del capitale. Il lavoro non pagato del lavoratore mantiene tutti i membri della società che non lavorano; «su di esso poggia l’intera situazione sociale – dice Engels – nella quale noi viviamo». Tutto il lavoro non pagato non è, tuttavia, una caratteristica esclusiva della società borghese. Essa si riscontra ovunque esistano classi di possidenti e classi di lavoratori non possidenti, le quali ultime hanno dovuto sempre fornire lavoro non pagato.
Durante tutto il periodo in cui la schiavitù era la forma dominante dell’organizzazione del lavoro, gli schiavi hanno dovuto lavorare molto di più di quel che non fosse reintegrato loro sotto forma di mezzi di sussistenza. Sotto il regime della schiavitù della gleba e fino all’abolizione del lavoro feudale dei contadini accadeva la stessa cosa. La forma ora è mutata, ma la sostanza è rimasta. Fintanto che «una parte della società – dice Marx – possiede il monopolio dei mezzi di produzione, l’operaio, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario per il suo sostentamento del tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo un proprietario nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista».
Per un approfondimento del significato e della portata rivoluzionaria della scoperta del plusvalore, Engels ricorre alla storia della chimica e alla scoperta di un nuovo elemento: l’ossigeno. Nato a Parigi nel 1743 e morto ghigliottinato durante la grande Rivoluzione Francese del 1789, Antoine Laurent Lavoisier è considerato il padre della chimica moderna. Considerata come una scienza dai connotati fortemente ambigui, la chimica, ancora alla metà del Settecento, era influenzata da fonti alchimistiche, magiche ed esoteriche. Molti chimici credevano possibile realizzare il vecchio sogno di trasmutare i metalli in oro, tanto che il giovane Antoine decise di seguire i corsi di chimica, tenuti da un farmacista illuminista Francois Rouelle, subordinati alle esigenze dei medici e dei farmacisti. I farmaci inclusi nelle numerose farmacopee erano gli stessi usati da medici e speziali del Rinascimento: la celebre polvere del mitico liocorno, o quella tratta dalle corna del cervo, potenti sostanze tossiche come l’antimonio o il mercurio, sostanze organiche tratte da cadaveri umani, ed altri rimedi non meno stravaganti, spiccavano nel ricettario dello speziale settecentesco.
Per quanto riguarda i fenomeni calorifici, nel Settecento dominava la teoria flogistica secondo la quale ogni combustione consisteva nel fatto che dal corpo comburente si separa un altro corpo ipotetico, che veniva designato col nome di flogisto. La teoria del flogisto, sebbene fosse teoricamente inconsistente, divenne ben presto la cornice teorica entro la quale tutti i fenomeni chimici venivano inquadrati e spiegati, non senza una qualche violenza. Terminati i corsi di chimica, a soli 20 anni, il giovane Antoine mise su carta alcune idee che manifestavano le sue perplessità sull’approccio qualitativo dominante in chimica. La chimica per dirsi veramente scienza, secondo Lavoisier, non poteva più affidarsi all’arbitrio e alla volubilità dei sensi, ma doveva adottare modelli analoghi a quelli forniti dalla fisica e dalla matematica. Non è dunque un caso che in questo scritto egli citasse i nomi di fisici quali Newton, Franklin, ecc… Ma col progredire delle tecniche sperimentali e con l’emergere di fenomeni ed osservazioni difficilmente inquadrabili nei sistemi teorici tradizionali, la chimica settecentesca diventava sempre più insostenibile. Solo nel 1718 un farmacista francese, Etienne Francois Geoffroy, riuscì ad aprire una breccia nella chimica dogmatica e sclerotizzata del tempo, con la teoria dell’affinità chimica.
Ma la rivoluzione era nell’aria! Nel 1766, il fisico inglese Henry Cavendish, combinando l’azione di acidi particolari con i metalli, osservava la liberazione di un gas altamente infiammabile. Cavendish aveva scoperto l’idrogeno, ma la sua precisa natura rimase un mistero. Nel 1772, il teologo Joseph Priestley, membro della Royal Society di Londra, nel suo trattato interamente dedicato ai gas, allora chiamati fluidi elastici, descrive una specie di aria «che trovò così pura, ossia così immune dal flogisto, che l’aria comune al suo confronto appariva già corrotta». Ma la scoperta più importante e significativa arrivò nel 1774 da un oscuro farmacista svedese, Wilhelm Scheele, che negli anni precedenti aveva compiuto numerose esperienze sui fluidi elastici. Una di queste consentiva di isolare una specie d’aria particolarmente atta a conservare la fiamma che lui chiamò «aria di fuoco». Sia Priestley che Scheele avevano descritto l’ossigeno, ma non sapevano cosa avessero tra le mani. «Essi rimanevano prigionieri nelle categorie flogistiche – dice Engels – così come le avevano trovate belle e fatte».
Nell’ottobre del 1774 Priestley ebbe l’occasione di conoscere, a Parigi, Lavoisier. In questa occasione Priestley mostrò a Lavoisier un nuovo metodo per isolare l’aria di fuoco illustrandogli le caratteristiche peculiari del nuovo gas. È grande merito di Lavoisier l’aver intuito le grandi potenzialità teoriche insite nella scoperta di questo gas. Si mise a lavoro e sottopose ad esame l’intera chimica flogistica, scoprendo, che questa specie di aria, era un nuovo elemento chimico: l’ossigeno.
Molto si è scritto, prescindendo dal contesto storico e culturale al quale la scoperta si riferisce, su chi, per primo, abbia scoperto l’ossigeno: Priestley era un seguace della teoria flogistica e cercava di interpretare tutti i fenomeni chimici nel quadro della tradizionale filosofia della materia di Aristotele; Scheele aveva elaborato una nuova teoria che attribuiva al fuoco un ruolo centrale; solo Lavoisier, infine, capì che la chimica poteva essere rifondata completamente se si fosse approfondita la natura dei gas e il loro ruolo durante le reazioni. Capì, con la scoperta dell’ossigeno, di aver individuato un nuovo elemento le cui caratteristiche chimiche erano capaci di spiegare un numero sempre più esteso di fenomeni. Dunque, Lavoisier rimane il vero scopritore dell’ossigeno di fronte a Priestley e a Scheele, i quali lo hanno meramente descritto, senza minimamente sospettare che cosa avessero descritto.
Così Marx, come Lavoisier, rimane rispetto ai suoi predecessori (William Petty, 1662; John Locke, 1691; Davd Hume,1752, Adam Smith,1776; ecc.), il vero scopritore della teoria del plusvalore. Detti predecessori, benché avessero intuito che il plusvalore era un prodotto del lavoro, non si elevarono mai al di sopra dell’aspetto fenomenico, non raggiunsero mai l’essenza del plusvalore. Essi rimanevano prigionieri delle categorie economiche così come le avevano trovate.
«Qui interviene Marx. Là dove questi avevano visto una soluzione – dice Engels -, egli vide soltanto un problema. Egli vide che qui non c’era aria deflogistizzata, né aria di fuoco, ma ossigeno, che si trattava non della pura e semplice constatazione di un fatto economico, né del conflitto di questo fatto con la giustizia eterna e la vera morale, bensì di un fatto che era chiamato a sovvertire l’intera economia, e che forniva la chiave per la comprensione dell’intera produzione capitalistica, per chi avesse saputo utilizzarla. Fondandosi su questo fatto, egli esaminò tutte le categorie già trovate, come Lavoisier fondandosi sull’ossigeno aveva esaminato le categorie già esistenti della chimica flogistica.
(F.Engels, Studi sul Capitale, Ed. Rinascita, 1954)