L’EPICA LOTTA DEL POPOLO PALESTINESE di Piero De Sanctis
L’insurrezione del 7 ottobre scorso del popolo palestinese, che da settantacinque anni vive sotto l’oppressione colonialista di Israele, è solo l’ultimo atto di una tragedia, molto più ampia, dei popoli del Medio Oriente.
Fin dall’inizio della sua esistenza la borghesia ebraica, insediatasi al governo di Israele, praticava una politica conservatrice e antidemocratica. Nella primavera del 1953, sotto il governo di Ben Gurion, fu scatenata una campagna poliziesca di terrore contro il Partito Comunista di Israele. E Ben Gurion, primo ministro israeliano, nella sua visita agli USA del 1960, già considerava i circoli imperialisti e quelli sionisti come un punto d’appoggio politico-militare per la lotta contro i movimenti di liberazione nazionale nel Medio Oriente
Eppure, nell’agosto del 1923, il giovane Ben Gurion si recò a Mosca con una delegazione dell’Histadrut, alla mostra pansovietica dell’agricoltura e dell’artigianato e, nel documento finale rilasciato, si può leggere la soddisfazione per il ripristino delle relazioni economiche tra la Russia e la Palestina. Le idee del giovane, futuro primo ministro di Israele, costituivano un miscuglio esotico di socialismo e di idealismo sionista. Amava Lenin e credeva che il comunismo avrebbe garantito gli ebrei dall’antisemitismo.
Settantacinque anni fa, il 15 maggio1948, allorquando giunse a termine il Mandato sulla Palestina di Sua Maestà Britannica, le Nazioni Unite non presero nessuna misura per assicurare l’ordine e il rispetto della legge circa il futuro della spartizione della Palestina. Non a caso fu usato l’eufemismo spartizione per coprire la realtà della privazione della patria e l’esilio di un intero popolo. In cambio si offrivano ai palestinesi campi profughi e razioni alimentari dell’ONU. Ne seguì il caos, centinaia di migliaia di arabi palestinesi espatriarono nei vicini paesi arabi. Settantacinque anni durante i quali lo Stato di Israele, con i suoi soliti immarcescibili alleati, Washington e Londra, si sono posti il problema di cancellare un intero popolo, perseguitarlo e umiliarlo e cancellarne ogni traccia della sua esistenza.
La risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU, del 26 novembre 1947, che stabiliva la divisione in due parti della Palestina, con la creazione di uno Stato di Israele e di uno Stato palestinese, era, tuttavia, un esito del tutto coerente con le premesse poste, alcuni anni prima, alla Conferenza sindacale mondiale di Londra del febbraio 1945. Le tappe che portarono alla risoluzione 181 ebbero, come ci ricorda lo storico Luciano Canfora, «il loro momento culminante nella scelta sovietica, nel biennio 1944-46, di impegnarsi a fondo per la nascita dello Stato di Israele». La sorte della Palestina e degli ebrei palestinesi era nelle mani dei politici americani e britannici, che in generale erano contrari alla creazione di Israele. Lo Stato ebraico non sarebbe sorto senza l’opera di Stalin.
Ma, appena pochi giorni dopo il voto alle Nazioni Unite, esplosero gli scontri in Palestina miranti ad impedire l’applicazione della risoluzione relativa alla spartizione della regione. Così, il 10 giugno 1948, Ben Gurion poteva dichiarare: «I nostri confini si sono allargati, le nostre forze si sono moltiplicate, già amministriamo servizi pubblici…rafforzare le nostre posizioni in città e in campagna, accelerare la colonizzazione e l’immigrazione, e vegliare sull’esercito». Chaim Weizmann, chimico di fama mondiale, dal 1920 capo dell’Organizzazione Mondiale Sionista, uomo di grande capacità persuasiva, fu la persona che più contribuì alla creazione della Stato ebraico, che lo diresse per circa trent’anni. In una sua visita a Gerusalemme del primo dicembre 1948, in un suo discorso, disse: «Non preoccupatevi se parte di Gerusalemme non è ancora incorporata nello Stato. La otterremo pacificamente. Abbiate pazienza». Diciannove anni più tardi l’esercito israeliano seguì il consiglio di Weizmann e aprì la via al Muro del Pianto, non pacificamente, ma militarmente, con le bombe al napalm.
Da allora l’espansionismo dell’oligarchia finanziaria israeliana, non si è più fermato. Secondo il rapporto del 1966-67 dell’Ufficio Soccorsi e Lavori delle Nazioni Unite (UNRWA), il numero dei rifugiati espulsi dalle loro case site entro i confini d’Israele, ammonta a due milioni e quattrocentomila persone. Dal 1950 al 1968, 18 sono state le risoluzioni dell’ONU, tutte riaffermanti il diritto dei profughi al rimborso e al risarcimento, e tutte regolarmente respinte dal governo israeliano.
Alla vigilia dell’attacco a Suez, il 19 ottobre 1956, le forze di frontiera israeliane penetrarono nel villaggio Kafr Qasem (nome passato alla storia come Massacro di Kafr Qasem), ed imposero il coprifuoco, mentre i contadini stavano ancora lavorando nei loro campi: 51 di loro furono assassinati e 13 furono i feriti. Tra i morti si contarono 12 donne e ragazze, 10 ragazzi tra i 14 e 17 anni e altri 7 bambini tra 8 e 13 anni.
Nel giugno del 1967, durante la guerra dei sei giorni, l’esercito israeliano, con un proditorio attacco, si portò direttamente in Cisgiordania, fino alle rive del fiume Giordano. Sorpresi dalla fulmineità dell’attacco e terrorizzati dalle armi al napalm, mai viste prima, gli abitanti arabi-palestinesi, circa 200 mila, fuggirono. Altri 210 mila seguirono, spinti dalla paura, dalla distruzione con la dinamite delle loro case o dalla perdita delle loro famiglie.
Un mese dopo la fine della guerra dei sei giorni, il primo ministro israeliano Levi Eshkol, ebbe a dichiarare. «Una nuova realtà si è creata in Medio Oriente. Israele intende mantenere la parte giordana di Gerusalemme e la Striscia di Gaza. Israele senza Gerusalemme è un Israele senza testa». Si può, dunque, affermare che a fine 1967, l’espansionismo israeliano si compendia nell’occupazione dei territori egiziani, giordani e siriani e nel rifiuto di evacuarli a dispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza del novembre 1967.
A ciò va aggiunta la politica israeliana volta a spopolare i territori occupati dal maggior numero possibile dei loro abitanti. Tutto ciò fu attuato nel totale dispregio delle più elementari norme di umanità e di carità cristiana: fucilazioni di massa, fosse comuni, distruzione su larga scala delle abitazioni, distruzione di interi villaggi, saccheggio di negozi e magazzini privando, come sta avvenendo in queste ore, gli arabi di ogni mezzo di sussistenza. La spogliazione del popolo arabo palestinese, di tutti i suoi diritti legittimi e dei suoi beni, lo ha trasformato così in un popolo di profughi dispersi, senza diritto all’autodeterminazione e, alla possibilità di una vita libera e pacifica.
Quando finì la Prima guerra mondiale nel 1918 il 90% della popolazione palestinese era araba e gli abitanti arabi-palestinesi erano proprietari del 97,5% delle terre coltivabili, mentre gli ebrei avevano solo il2,5% delle terre coltivabili. Eppure, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise la formazione dello Stato ebraico proprio in Palestina garantendogli il 54% del territorio. Espansione che avvenne quando ancora la Palestina era sotto il dominio delle forze inglesi.
La brutale aggressione di questi giorni, del sionismo israeliano contro il popolo palestinese, con l’appoggio incondizionato della Casa Bianca e dei circoli oltranzisti americani, dimostra, ancora una volta, la stretta connessione di questi ultimi, al sionismo israeliano. E oggi, come ieri, gli Stati Uniti utilizzano lo Stato di Israele, come testa di ponte contro i movimenti rivoluzionari dei popoli mediorientali. In particolare, contro la Siria e l’Iran, ricco di materie prime e futura potenza atomica.
E se, in tutto quest’arco di tempo di 75 anni, l’ONU ha continuato ad offrire ai palestinesi “buone risoluzioni” e l’Occidente “buoni consigli”, mentre Biden, Macron e Scholz, hanno armato fino ai denti lo Stato di Israele, e l’oppressione colonialista degli israeliani è stata sempre più forte, allora, tutto ciò non poteva non provocare la ribellione dei popoli medio-orientali, sempre più convinti che nessun problema coloniale sia mai stato vinto per vie diplomatiche.
L’insurrezione del 7 ottobre scorso del popolo palestinese, che da settantacinque anni vive sotto l’oppressione colonialista di Israele, è solo l’ultimo atto di una tragedia, molto più ampia, dei popoli del Medio Oriente.
Fin dall’inizio della sua esistenza la borghesia ebraica, insediatasi al governo di Israele, praticava una politica conservatrice e antidemocratica. Nella primavera del 1953, sotto il governo di Ben Gurion, fu scatenata una campagna poliziesca di terrore contro il Partito Comunista di Israele. E Ben Gurion, primo ministro israeliano, nella sua visita agli USA del 1960, già considerava i circoli imperialisti e quelli sionisti come un punto d’appoggio politico-militare per la lotta contro i movimenti di liberazione nazionale nel Medio Oriente
Eppure, nell’agosto del 1923, il giovane Ben Gurion si recò a Mosca con una delegazione dell’Histadrut, alla mostra pansovietica dell’agricoltura e dell’artigianato e, nel documento finale rilasciato, si può leggere la soddisfazione per il ripristino delle relazioni economiche tra la Russia e la Palestina. Le idee del giovane, futuro primo ministro di Israele, costituivano un miscuglio esotico di socialismo e di idealismo sionista. Amava Lenin e credeva che il comunismo avrebbe garantito gli ebrei dall’antisemitismo.
Settantacinque anni fa, il 15 maggio1948, allorquando giunse a termine il Mandato sulla Palestina di Sua Maestà Britannica, le Nazioni Unite non presero nessuna misura per assicurare l’ordine e il rispetto della legge circa il futuro della spartizione della Palestina. Non a caso fu usato l’eufemismo spartizione per coprire la realtà della privazione della patria e l’esilio di un intero popolo. In cambio si offrivano ai palestinesi campi profughi e razioni alimentari dell’ONU. Ne seguì il caos,centinaia di migliaia di arabi palestinesi espatriarono nei vicini paesi arabi. Settantacinque anni durante i quali lo Stato di Israele, con i suoi soliti immarcescibili alleati, Washington e Londra,si sono posti il problema di cancellare un intero popolo,perseguitarlo e umiliarlo e cancellarne ogni traccia della sua esistenza.
La risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU, del 26 novembre 1947, che stabiliva la divisione in due parti della Palestina, con la creazione di uno Stato di Israele e di uno Stato Palestinese, era, tuttavia, un esito del tutto coerente con le premesse poste, alcuni anni prima, alla Conferenza sindacale mondiale di Londra del febbraio i945. Le tappe che portarono alla risoluzione 181 ebbero , come ci ricorda lo storico Luciano Canfora, «il loro momento culminante nella scelta sovietica, nel biennio 1944-46, di impegnarsi a fondo per la nascita dello Stato di Israele». La sorte della Palestina e degli ebrei palestinesi, era nelle mani dei politici americani e britannici, che in generale erano contrari alla creazione di Israele. Lo Stato ebraico non sarebbe sorto senza l’opera di Stalin.
Ma, appena pochi giorni dopo il voto alle Nazioni Unite, esplosero gli scontri in Palestina miranti ad impedire l’applicazione della risoluzione relativa alla spartizione della regione. Così, il 10 giugno 1948, Ben Gurion poteva dichiarare:« I nostri confini si sono allargati, le nostre forze si sono moltiplicate, già amministriamo servizi pubblici…rafforzare le nostre posizioni in città e in campagna, accelerare la colonizzazione e l’immigrazione, e vegliare sull’esercito». Chaim Weizmann, chimico di fama mondiale,dal 1920 capo dell’Organizzazione Mondiale Sionista, uomo di grande capacità persuasiva, fu la persona che più contribuì alla creazione della Stato ebraico, che lo diresse per circa trent’anni. In una sua visita a Gerusalemme del primo dicembre 1948, in un suo discorso, disse:« Non preoccupatevi se parte di Gerusalemme non è ancora incorporata nello Stato. La otterremo pacificamente. Abbiate pazienza». Diciannove anni più tardi l’esercito israeliano seguì il consiglio di Weizmann e aprì la via al Muro del Pianto, non pacificamente, ma militarmente, con le bombe al napalm.
Da allora l’espansionismo dell’oligarchia finanziaria israeliana, non si è più fermato. Secondo il rapporto del 1966-67 dell’Ufficio Soccorsi e Lavori delle Nazioni Unite (UNRWA), il numero dei rifugiati espulsi dalle loro case site entro i confini d’Israele, ammonta a due milioni e quattrocentomila persone. Dal 1950 al 1968, 18 sono state le risoluzioni dell’ONU, tutte riaffermanti il diritto dei profughi al rimborso e al risarcimento, e tutte regolarmente respinte dal governo israeliano.
Alla vigilia dell’attacco a Suez, il 19 ottobre 1956, le forze di frontiera israeliane penetrarono nel villaggio Kafr Qasem (nome passato alla storia come Massacro di Kafr Qasem), ed imposero il coprifuoco, mentre i contadini stavano ancora lavorando nei loro campi: 51 di loro furono assassinati e 13 furono i feriti. Tra i morti si contarono 12 donne e ragazze, 10 ragazzi tra i 14 e 17 anni e altri 7 bambini tra 8 e 13 anni.
Nel giugno del 1967, durante la guerra dei sei giorni, l’esercito israeliano, con un proditorio attacco, si portò direttamente in Cisgiordania, fino alle rive del fiume Giordano. Sorpresi dalla fulmineità dell’attacco e terrorizzati dalle armi al napalm, mai viste prima, gli abitanti arabi-palestinesi, circa 200 mila, fuggirono. Altri 210 mila seguirono, spinti dalla paura, dalla distruzione con la dinamite delle loro case o dalla perdita delle loro famiglie.
Un mese dopo la fine della guerra dei sei giorni, il primo ministro israeliano Levi Eshkol, ebbe a dichiarare. «Una nuova realtà si è creata in Medio Oriente. Israele intende mantenere la parte giordana di Gerusalemme e la Striscia di Gaza. Israele senza Gerusalemme è un Israele senza testa». Si può, dunque, affermare che a fine 1967, l’espansionismo israeliano si compendia nell’occupazione dei territori egiziani,giordani e siriani e nel rifiuto di evacuarli a dispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza del novembre 1967.
A ciò va aggiunta la politica israeliana volta a spopolare i territori occupati dal maggior numero possibile dei loro abitanti. Ciò fu attuato nel totale dispregio delle più elementari norme di umanità e di carità cristiana: fucilazioni di massa, fosse comuni, distruzione su larga scala delle abitazioni, distruzione di interi villaggi, saccheggio di negozi e magazzini privando, come sta avvenendo in queste ore, gli arabi di ogni mezzo di sussistenza.
Quando finì la prima guerra mondiale nel 1918 il 90% della popolazione palestinese era araba e gli abitanti arabi-palestinesi erano proprietari del 97,5% delle terre coltivabili, mentre gli ebrei avevano solo il 2,5% delle terre coltivabili. Eppure, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise la formazione dello Stato ebraico proprio in Palestina garantendogli il 54% del territorio. Espansione che avvenne quando ancora la Palestina era sotto il dominio delle forze inglesi.
La brutale aggressione di questi giorni, del sionismo israeliano contro il popolo palestinese, con l’appoggio incondizionato della Casa Bianca e dei circoli oltranzisti americani, dimostra ,ancora una volta, la stretta connessione di questi ultimi, al sionismo israeliano. E oggi, come ieri, gli Stati Uniti utilizzano lo Stato di Israele, come testa di ponte contro i movimenti rivoluzionari dei popoli mediorientali. In particolare contro la Siria e l’Iran, ricco di materie prime e futura potenza atomica.
E se, in tutto quest’arco di tempo di 75 anni, l’ONU ha continuato ad offrire ai palestinesi “buone risoluzioni” e l’Occidente “buoni consigli”, mentre Biden, Macron e Scholz, hanno armato fino ai denti lo Stato di Israele, e l’oppressione colonialista degli israeliani è stata sempre più forte, allora, tutto ciò non poteva non provocare la ribellione dei popoli medio-orientali, sempre più convinti che nessun problema coloniale sia mai stato vinto per vie diplomatiche.
Teramo 15 ottobre 2023