IL CREPUSCOLO DELL’OCCIDENTE E LA CHIMERA RIFORMISTA di Piero De Sanctis
Chi è nato durante la Seconda guerra mondiale, ricorda sicuramente le grandi battaglie politiche ed economiche sulle riforme di struttura, di togliattiana memoria, destinate ad introdurre, nella struttura economica capitalistica italiana, elementi di natura socialista. E ognuno ricorda le corrispondenti battaglie sostenute dal gruppo dirigente del Pci e da tutti gli iscritti, per la costruzione di un grande partito democratico di massa, sulla base della teoria marxista e leninista, come amava dire lo stesso Togliatti. La sconfitta del nazismo, da parte dell’Esercito Rosso, e del fascismo italiano, da parte della Lotta di Resistenza, aprì una nuova era di grandi speranze verso la meta del socialismo.
Il testo che suggella questa nuova visione, sia sotto l’aspetto teorico che pratico, è La via italiana al socialismo, la cui tesi di fondo, secondo il rapporto tenuto da Togliatti 24 giugno 1956, si basa sulla constatazione delle due nuove grandi trasformazioni avvenute nel mondo dopo la Seconda guerra mondiale. La prima afferma: «che non esiste più soltanto un solo Stato dove la classe operaia abbia il potere e sia riuscita a costruire una società socialista, ma esiste un sistema ampio di Stati socialisti». La seconda, è quella del «crollo del colonialismo come sistema di dominio del mondo da parte della piccola minoranza degli Stati imperialisti. In conseguenza di questi due fatti ci si trova in presenza di un mutamento delle strutture oggettive del mondo intero». Da queste due ipotesi di carattere generale, esterne alla società italiana, Togliatti deduce, passando ad analizzare la situazione interna italiana, che: «il metodo democratico, nella lotta per il socialismo e nell’avanzata verso di esso acquisti oggi quel rilievo che nel passato non poté sempre avere. Si possono cioè ottenere grandi risultati nella marcia verso il socialismo senza abbandonare questo metodo democratico, seguendo vie diverse da quelle che sono state battute e quasi obbligatorie nel passato, evitando le rotture e le asprezze che allora furono necessarie». In altre parole si affermava che l’unica via da battere perché la classe operaia e i lavoratori potessero prendere il potere, era la via, senza rotture, delle riforme di struttura e quella parlamentare.
In questo rassicurante disegno, al quale abbiamo convintamente creduto e per il quale abbiamo lottato per realizzarlo, sono racchiuse tutta la strategia e la tattica, per il presente e il futuro, delle lotte del mondo del lavoro e della cultura, consapevoli, nello stesso tempo, che la costruzione del socialismo è la scalata, come dice Lenin, «di un’alta montagna impervia, inesplorata e inaccessibile». In questo quadro fu tracciata la strada maestra da seguire. Dalle lotte per introdurre, accanto ai monopoli capitalistici, il monopolio di Stato, (pensato come organismo al di sopra delle classi), quale la nazionalizzazione dell’energia elettrica, ecc.., alle grandi lotte operaie per limitare il potere padronale, fino alle lotte politiche elettoralistiche per la costituzione di governi sempre più avanzati verso il socialismo.
In realtà, se si fossero analizzate, più da vicino, le righe testé riportate, non si sarebbe potuto non notare il loro grado di parentela con quelle che sono alla base della Fabian Society, organizzazione riformistica inglese fondata nel 1884, i cui massimi dirigenti negavano la necessità della lotta di classe operaia e della rivoluzione socialista. Affermavano, inoltre, che il passaggio dal capitalismo al socialismo, era possibile soltanto attraverso la via democratica graduale delle riforme sociali. Eppure la funzione dell’intervento dello Stato nella economia non era un fatto nuovo, esso, già da tempo, era stato acquisito dai paesi industrializzati. Già Lenin sottolineava che «uno degli errori più diffusi è l’affermazione riformista borghese secondo la quale il capitalismo monopolistico di Stato non è più capitalismo e può chiamarsi “socialismo di Stato”, ecc..». È anche vero, tuttavia, che la borghesia monopolistica dominante ha una vasta esperienza di comando, e conosce molto bene la grande funzione sociale delle “riforme” e delle politiche assistenzialiste, attuate, però, con la montagna di plusvalore estorto alla classe operaia dalle tasse e dai bassi salari.
La costruzione di monopoli con soldi pubblici è avvenuta, primariamente, per fini militari e di guerra e, solo successivamente, si è avuta la nazionalizzazione di interi settori dell’economia con l’acquisizione da parte dello Stato di quote azionarie di imprese monopolistiche private. Tale processo è attualmente così avanzato che sono sorte vere e proprie teorie economiche che esprimono la necessità, soprattutto in caso di crisi, di un apporto statale pubblico a sostegno del profitto privato.
L’estendersi dell’intervento pubblico nell’economia, se da una parte esprime, attraverso le crisi periodiche, l’incapacità della classe borghese dominante di dirigere ulteriormente le moderne grandi forze produttive del Paese, dall’altro, tale intervento, non si è mai tradotto in un beneficio materiale della classe operaia. Non si è mai voluto tener conto del grande insegnamento di Federico Engels che, in un passo dell’Antidührring (Ed. Rinascita, pag. 303), scrive: «Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero dei cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari». Oggi, al lavoratore si contrappone non il singolo capitalista, né la singola fabbrica, ma il capitale monopolistico nella sua totalità, organizzato in forma di Stato. La lotta economica, che fondendosi con quella politica e con la lotta contro la politica economica dello Stato borghese, acquista sempre più dimensioni europee e mondiali per via della “Globalizzazione” dei mercati e dei capitali e dell’intensificarsi delle contraddizioni fondamentali del capitalismo dei paesi a capitalismo maturo.
La storia dimostra che un nuovo sistema sociale, in sostituzione ad uno vecchio, non necessariamente si trova nei paesi capitalisti sviluppati. In un articolo premonitore del marxista Karl Kautsky, apparso nel 1902 sull’Iskra, circa dieci anni prima che lui tralignasse verso il riformismo socialdemocratico tedesco, afferma: «Il nuovo secolo si apre con avvenimenti i quali inducono a pensare che ci stiamo avvicinando ad un ulteriore spostamento del centro rivoluzionario, cioè al suo trasferimento in Russia […] La Russia, che ha attinto dall’Occidente tanta iniziativa rivoluzionaria, è forse oggi pronta a diventare essa stessa una fonte di energia rivoluzionaria per l’Occidente. Il rinfocolato movimento rivoluzionario russo sarà forse il mezzo più potente per sradicare lo spirito di infrollito filisteismo e superficiale politicantismo che comincia a diffondersi nelle nostre file e farà nuovamente divampare in vivida fiamma l’ardore della lotta e l’appassionata dedizione ai nostri grandi ideali».
In un breve scritto del marzo 1923, Meglio meno, ma meglio, alla vigilia della sua morte, Lenin fa l’analisi delle forze motrici e delle prospettive del processo rivoluzionario mondiale dopo l’avvenuta divisione del mondo in due sistemi: il sistema socialista e quello capitalistico. «[…]Inoltre – scrive Lenin – la situazione internazionale ha fatto sì che oggi la Russia è stata respinta indietro […] Le potenze capitalistiche dell’Europa Occidentale, in parte consapevolmente, in parte spontaneamente, hanno fatto il possibile per respingerci indietro, per utilizzare gli elementi di guerra civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il nostro paese […] Se non rovesceremo il regime rivoluzionario in Russia ne renderemo in ogni caso difficile lo sviluppo verso il socialismo […] Dalla nostra parte c’è il vantaggio che tutto il mondo sta già passando a un movimento da cui dovrà nascere la rivoluzione socialista mondiale […] L’esito della lotta dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina, ecc., costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione del globo. In questo senso, la vittoria finale del socialismo è totalmente garantita».
Da quelle profetiche previsioni di Lenin sono passati esattamente 100 anni durante i quali molti altri paesi dell’Oriente, si sono liberati dal giogo imperialista. Attualmente, in tutto il mondo ci sono oltre 130 partiti comunisti, (secondo le ultime statistiche diffuse dalla Cina), per un totale di circa 100 milioni di iscritti, di cui 93 milioni nei Paesi socialisti: 85 milioni in Cina, 4 milioni in Corea del Nord, 3 milioni in Vietnam, un milione a Cuba. I paesi capitalisti hanno oltre 120 partiti comunisti. Il Partito comunista dell’India (marxista), il più grande di uno dei quattro partiti comunisti indiani, ha un milione di iscritti ed è il terzo partito del Parlamento indiano. È stato al potere nel Bengala occidentale e per molti anni al potere nel Kerala. Il Sudafrica è il paese più sviluppato dell’Africa. Il Partito comunista del Sudafrica, costituito nel 1921, ha 130 mila membri ed è il più forte tra i partiti comunisti dell’Africa. La Russia, patria del leninismo, è la seconda superpotenza mondiale. Il Partito comunista russo, attualmente ha 160 mila iscritti, ed è il secondo partito della Duma. La rinascita della Russia, speriamo sia accompagnata dalla rinascita del socialismo! In tutti questi Paesi citati vivono i ¾ della popolazione mondiale che, nell’insieme, lottano ed esprimono la tendenza alla sostituzione del sistema capitalistico con quello socialista.
Teramo 15 aprile 2024