IL CASO LEHMAN di Piero De Sanctis
Nel 1981, Ronald Reagan diventa presidente degli Stati Uniti facendosi portatore di una politica economica (Reagannomics) assolutamente spregiudicata, in netta contrapposizione alla politica e alle riforme di Kennedy di stampo keynesiano. Questa nuova politica di Reagan si basava su due principi:da una parte taglio delle imposte e del tasso d’interesse accompagnati dalla deregolamentazione delle attività produttive, dall’altra riduzione della spesa pubblica e perseguimento del pareggio di bilancio, deviando inoltre parte della spesa pubblica dal settore dello stato sociale a quello militare.
Questa “nuova” politica, in effetti non era altro che l’applicazione della teoria monetaristica di Milton Friedman, premio Nobel 1976, che dominerà le Università americane ed europee, per i futuri decenni. Il nucleo della sua argomentazione è incentrato sull’esame del solo fattore monetario, ritenuto in grado di spiegare esaurientemente tutta l’economia. Egli ritiene che sia l’inflazione il male principale da combattere perché rende i prezzi totalmente instabili da non permettere ai capitalisti di operare in modo “libero” sul mercato.
Tuttavia, già nel 1956 la società cilena ebbe modo di constatare gli effetti deleteri sulle masse popolari e su tutta la classe operaia, dell’applicazione di questi principi, per l’epoca ritenuti “rivoluzionari”. Proprio in questo anno la Pontificia Università del Cile di Santiago firma un accordo di cooperazione con la Chicago School of Economics dell’Università di Chicago. Inizia così uno scambio con gli studenti cileni che durerà due decenni. Alla fine degli anni Sessanta una ventina di questi studenti approda a Chicago e partecipa alle lezioni di economia del prof. Milton Friedman.
Parlando della caratteristica fondamentale di questa scuola, lo stesso Friedman dice: « Ciò che contraddistingue la scuola di pensiero di Chicago è la convinzione che l’intervento dello Stato nell’economia debba essere minimo e il mercato lasciato libero di diventare lo strumento di controllo dell’economia.». Così il prof. riassume la sua teoria durante un’intervista alla Pbs americana.
Questo gruppetto di studenti cileni, convinti di aver appreso i più rivoluzionari principi dell’economia moderna, sono stati, al contrario, veicoli inconsapevoli delle idee più reazionarie in fatto di economia e ironicamente battezzati i Chicago Boys. Presto questi nuovi simplicio, sostenuti da grandi finanzieri e industriali legati a Pinochet, entrano in conflitto con le politiche del Presidente Allende, di stampo socialista. Un conflitto che durerà fino al colpo di Stato dell’11settembre 1973.
Invitato dal Presidente delle banche cilene, Friedman compie un ciclo di conferenze sull’economia cilena, durante le quali illustra i passi necessari da fare per trasformare il paese conformemente ai suoi principi monetaristi. In men che non si dica vengono privatizzate – per combattere l’inflazione galoppante -, le 500 maggiori imprese di Stato, abolite le tariffe sull’importazione, tagliate le spese per le politiche sociali, liberalizzato totalmente il mercato.
Finalmente Friedman può gridare ai quattro venti di essere riuscito a trasformare il Cile nel primo paese dell’America Latina a guida neoliberista. Pinochet, i Chicago Boys, Friedman e tutto l’apparato industriale-finanzirio, brindano per il successo del rapido sviluppo dell’economia.
In realtà si è trattato di un brutale e vergognoso trasferimento di ricchezza dalle masse popolari verso una ristretta oligarchia finanziaria: si quadruplica il costo della vita, la disoccupazione sale oltre il 30%, diminuiscono sensibilmente i salari reali e le pensioni, mentre Pinochet tortura, ammazza, fa scomparire 24 mila persone, distrugge sindacati e partiti della sinistra. Friedman può ora, dunque, dichiarare con orgoglio: « Che il Cile è il primo esempio di come il “libero mercato” può evitare che un Paese scivoli nel comunismo.». Ora Friedman ha le carte in regola per reclamare il premio Nobel. L’euforia per questo modello neoliberista, come un virus, si propaga per tutto l’Occidente, fino a diventare, negli anni Ottanta, il principio guida delle politiche di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher.
Ma i fatti, come dice Lenin, hanno la testa dura e, puntualmente, le crisi economiche capitalistiche si ripresentano – proprio quelle studiate da Marx – perché intatte sono rimaste le radici che le hanno prodotte: una di queste, la fondamentale, è la contraddizione ineliminabile tra la produzione sociale e l’appropriazione privata della ricchezza prodotta dal lavoro umano. Infatti, già nel 1974, con un sincronismo mai prima osservato, tutti i paesi capitalisti avanzati entrarono in crisi, dimostrando ancora una volta, l’inconsistenza delle teorie borghesi sulla possibilità nel capitalismo di evitare le crisi e le bolle speculative ad esse associate, le quali non sono altro che processi di ulteriore concentrazione del sistema finanziario mondiale e di ricerca di nuovi equilibri. A tale proposito diamo due importanti esempi.
L’anno 2007 è l’anno dei grandi profitti per la finanza globalizzata. La J. P. Morgan e la Goldman Sachs annunciano profitti da favola. Il Consiglio di Amministrazione di quest’ultima ha annunciato di aver guadagnato nel solo terzo trimestre del 2009 più di tre miliardi di dollari. Nel settembre del 2008, di converso, c’è il crac della Lehman Brother, la più grande banca d’affari degli Stati Uniti, nonostante che gli istituti di rating avessero mantenuto, fino ad un attimo prima del crac, il giudizio della singola A, che equivale a dire che la banca è solidissima. Un fallimento che ha generato molti dubbi, visto che il principio generale era: « troppo grande per fallire ». La Federal Reserve perché non ha salvato la Lehman come ha fatto con le altre banche? Lascia anche perplessi la estrema rapidità del fallimento stesso. Nel primo semestre del 2008 le azioni della Lehman perdono il 73%, il 10 settembre la banca annuncia una perdita di circa quattro miliardi di dollari e il 13 settembre la Federal Reserve annuncia la possibilità di liquidazione delle attività della Lehman.
In generale possiamo dire, che nel periodo 2007-2009 molte banche sono fallite e molte hanno registrato profitti strepitosi e, non è un caso, se le vittime di questo riequilibrio appartengono a quell’élite finanziaria non gradita a Wall Street e giudicata « troppo indipendente». Così è stato ordinato dalla Federal Reserve, così è stato fatto.
Dunque si è trattato, in definitiva, di un colossale riassestamento e concentrazione del capitale finanziario che, come Marx insegna, avviene attraverso la Borsa dove i grandi finanzieri rubano i capitali l’uno all’altro. Ora, inopinatamente, è apparso sul giornale Il Fatto Quotidiano del 2 settembre scorso una lunga intervista a Stefano Massini, autore del romanzo Qualcosa sui Lehman nel quale sostiene, tra la tante altre amenità, un insostenibile parallelo tra la caduta del muro di Berlino e il crac della Lehman. Egli dice: « A distanza di dieci anni possiamo dire che ….con Berlino è caduto il comunismo e con Lehman è caduto il capitalismo.». Ora alla perentoria affermazione « a Berlino è caduto il comunismo » mi pare sia del tutto inutile rispondere, visto che il Massini sembra non conoscere la differenza tra socialismo e comunismo, anche perché il comunismo non è stato ancora edificato in nessuna parte del mondo! Per quanto riguarda la seconda affermazione sulla caduta del capitalismo suscita spontanea la domanda: in quale sistema sociale egli crede di vivere? In Europa e in generale nell’Occidente industrializzato, vige il sistema capitalistico il quale domina sia economicamente che culturalmente e nel quale il Massini vive e opera con successo, anche finanziario. Le crisi economiche e le bolle speculative finanziarie si sono susseguite lungo il corso del Novecento, ed anche oggi se ne sta preparando un’altra, da parte del summit della grande finanza globalizzata, trasformatasi ormai in una piccola e potentissima oligarchia che succhia la quasi totalità del plusvalore creato dal lavoro operaio non retribuito (l’1% della popolazione possiede il 99% della ricchezza prodotta) e detta le leggi agli Stati ricattandoli attraverso il debito pubblico. E se ieri le ondate speculative s’infrangevano contro le frontiere dello Stato Sovietico, ora s’infrangono contro la Grande Muraglia cinese.
Se il consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano avesse letto con maggiore attenzione Marx, anziché citarlo con disinvoltura, saprebbe che un sistema economico non cade fino a quando non abbia sviluppato tutte le sue potenzialità, indipendentemente dalle crisi e dalle bolle speculative. Ha ragione ancora una volta Marx quando dice che anche gli uomini di cultura, portatori di concezioni astratte e ideologiche, dicono sciocchezze non appena s’arrischiano al di là della loro specialità. Così stanno le cose anche per il nostro romanziere.