ECONOMIA DELLA MISERIA di Piero De Sanctis
Sulla rivista mensile de Le Scienze del febbraio scorso, il premio Nobel per l’economia del 2001, Joseph Stiglitz sostiene – nel suo lungo articolo Un’economia truccata – che negli ultimi 30-40 anni, nei paesi occidentali più sviluppati, si è raggiunto il più alto livello di diseguaglianza mai visto prima, non certo per «leggi di natura», ma per leggi economiche. «I mercati non esistono nel vuoto –afferma- ma sono plasmati da norme e regolamenti che possono essere progettati per favorire un gruppo a discapito di un altro. Il sistema economico è truccato dal predominio dell’alta finanza e dalle multinazionali ereditarie di cui lo stesso Trump fa parte… Nella maggior parte dei paesi avanzati – seguita Stiglitz – la diseguaglianza è cresciuta per fattori come la globalizzazione, il cambiamento tecnologico e il passaggio a un’economia di servizi, ma il suo aumento negli Stati Uniti è stato il più rapido, secondo il World Inequality Database. Questo perché sono state riscritte le regole per renderle più favorevoli ai ricchi e svantaggiose agli altri. Alle grandi aziende è stato permesso di esercitare maggiore potere sul mercato, ma l’influenza dei lavoratori è diminuita. Tassazione e altre scelte politiche hanno favorito i ricchi».
«I difensori della diseguaglianza hanno una spiegazione pronta: fanno riferimento al funzionamento di un mercato competitivo in cui le leggi di domanda e offerta determinano salari, prezzi e persino i tassi di interesse. Forse questa storiella alleviava i sensi di colpa di chi era al vertice e convinceva gli altri ad accettare la situazione. Ma il momento cruciale cha ha rivelato questa menzogna è stata la crisi del 2008, in cui gli stessi banchieri che hanno portato l’economia globale sull’orlo del baratro con prestiti predatori, manipolazione dei mercati e altre pratiche antisociali, ne sono riusciti con bonus milionari, mentre milioni di statunitensi perdevano lavoro e casa,e decine milioni di persone in tutto il mondo capitalistico soffrivano per causa loro. Nessuno di questi banchieri ha dovuto rendere conto delle sue malefatte».
Stiglitz poi, cerca di spiegare il fatto, ormai incontestabile, che nei paesi industrialmente avanzati l’1% della popolazione possiede il 99% della ricchezza prodotta. Alcuni economisti, dice Stiglitz, sostengono che la spiegazione di questa inedita diseguaglianza vada cercata nell’enorme sviluppo tecnologico che ha spinto la domanda di lavoro qualificato a scapito di quello non qualificato. Ma ciò non regge visto che negli ultimi 20 anni è andata malissimo anche per il lavoro qualificato, così come è stato negativo l’andamento dei salari medi; altri economisti accusano la globalizzazione che ha indebolito il potere dei lavoratori, mentre altri sono del parere che tutto è dipeso dal fatto che, a partire dalla metà degli anni settanta, le regole del gioco economico sono state riscritte, a livello nazionale e internazionale, in modo che vadano a vantaggio dei ricchi e a svantaggio degli altri, creando un circolo vizioso in cui una diseguaglianza economica si traduce in una diseguaglianza politica che, a sua volta, riproduce una maggiore diseguaglianza economica. Il risultato finale di tutto ciò è che, mentre la produttività dei lavoratori è raddoppiata a partire dal 1980, secondo l’istituto dell’ Economic Policy, i salari reali operai sono diminuiti.
Ma il premio Nobel, mentre ci offre un quadro del tutto negativo delle conseguenze di Un’economia truccata, che ha prodotto e produce miseria crescente ai lavoratori, evita accuratamente di scendere alla sostanza delle cose, rimanendo su un piano di condanna morale e di “piagnistei”. Questo appello alla morale e alla giustizia non ci aiuta ad andare avanti di un passo nella scienza. La scienza economica non può vedere nell’indignazione morale, pur giustificata che essa possa anche essere, un argomento, ma solo un sintomo.
In realtà, con l’enorme sviluppo delle forze produttive e della produttività del lavoro, con l’applicazione consapevole della tecnica e della scienza e con un numero costantemente decrescente dei magnati del capitale e della finanza che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di produzione, cresce anche la quantità della miseria, dell’oppressione, dell’asservimento, della degradazione e dello sfruttamento dei lavoratori.
Ma è proprio questo concetto di sfruttamento della classe operaia, che si esprime scientificamente nel saggio di plusvalore, che l’economia borghese, da Adamo Smith e David Ricardo in poi, fino a Stiglitz, ha ignorato, disconosciuto, respinto, ma mai dimostrato falso. Non è un caso che tutti gli economisti borghesi che sono venuti dopo Marx hanno tralasciato completamente l’analisi dell’aspetto qualitativo di questo concetto, che solo permette di scoprire i reali rapporti sociali e di sfruttamento del sistema di produzione capitalistico. Ed è proprio vera l’asserzione che se gli assiomi della geometria euclidea avessero conflitto con gli interessi costituiti sarebbero stati da tempo confutati.
Il saggio di plusvalore è la più grande scoperta economica fatta da Marx. E’ la pietra miliare di tutta l’economia. «Il saggio del plusvalore – dice Marx- è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro». Esso, inoltre, ci permette di capire come il denaro si trasforma in capitale, e come avviene l’accumulazione del capitale.
E’ a tutti noto che il capitalista compra per la vendita con profitto. Marx chiama plusvalore questo accrescimento del primitivo valore del denaro messo in circolazione. Precisamente questo aumento trasforma il denaro in capitale, che è un particolare rapporto sociale di produzione, storicamente determinato. Per ottenere il plusvalore « il possessore di denaro deve trovare sul mercato una merce il cui stesso valore d’uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di valore». Tale merce esiste. Essa è la forza-lavoro dell’uomo. Il suo uso è il lavoro, e il lavoro crea valore. Avendo comprato la forza-lavoro, il capitalista ha il diritto di consumarla, ossia di obbligarla a lavorare tutto il giorno, per esempio, otto ore. Ma in quattro ore (tempo di lavoro necessario) l’operaio crea un prodotto che basta a coprire le spese del proprio mantenimento; mentre nelle quattro ore rimanenti (tempo di lavoro supplementare) crea un prodotto supplementare non pagato dal capitalista, ossia il plusvalore.
Perciò da un punto di vista del processo produttivo bisogna distinguere nel capitale due parti: il capitale costante (c), che viene impiegato per procurarsi i mezzi di produzione (macchine, strumenti di lavoro, materie prime, ecc.), e il cui valore (in una o più volte) passa, senza variare, nel prodotto finito; e il capitale variabile (v), che viene impiegato per l’acquisto della forza-lavoro (salario). Il valore di questa seconda parte del capitale non rimane invariato, ma aumenta durante il processo lavorativo, creando plusvalore.
Per esprimere il grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale, bisogna dunque confrontare il plusvalore, non già con il capitale complessivo, ma soltanto con il capitale variabile (v). Il saggio di plusvalore (p), come Marx chiama questo rapporto, sarà secondo il nostro esempio, p=4/4=100%. Ciò significa che l’operaio ha lavorato mezza giornata gratis per il padrone, e mezza giornata per se stesso. L’aumento del plusvalore è possibile grazie a due metodi fondamentali: il prolungamento della giornata di lavoro ( plusvalore assoluto) e la riduzione del tempo di lavoro necessario (plusvalore relativo).
Accanto al saggio del plusvalore, Marx introduce il concetto di saggio di profitto (p´) definito come il rapporto tra il plusvalore (p) e il capitale complessivo anticipato (c+v), in formula p´=p/(c+v), che esprime il profitto che intasca il capitalista per aver anticipato il capitale complessivo. Dal rapporto di questi due saggi, Marx deduce la seguente proporzione: il saggio di profitto sta al saggio di plusvalore come il capitale variabile sta al capitale complessivo. Ne segue che il plusvalore cresce tanto più, quanto più diminuisce il capitale variabile. L’analisi della connessione tra questi due saggi, la trasformazione dell’uno nell’altro, è di quanto più complicato, sottile e ingarbugliato ci possa essere in tutta l’economia politica. La questione è resa oltremodo confusa solo se si pensa che questi due concetti sono molto spesso mistificati.
Ecco ciò che dice Marx: «Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro soltanto anticipando il capitale costante e poiché può valorizzare quest’ultimo soltanto anticipando il capitale variabile, tutti questi elementi del capitale si presentano nella sua concezione come equivalenti, e ciò tanto più in quanto la misura reale del suo guadagno è determinata dal rapporto non con il capitale variabile, ma con il capitale complessivo, il quale può rimanere inalterato e tuttavia esprimere saggi diversi del plusvalore». Ed ancora:« Dalla trasformazione del saggio di plusvalore in saggio di profitto si deve dedurre la trasformazione del plusvalore in profitto, e non viceversa. Plusvalore e saggio di plusvalore sono, in senso relativo, l’invisibile, l’essenziale da scoprire, mentre il saggio del profitto e quindi il profitto, forma del plusvalore, si mostrano alla superficie del fenomeno». Il saggio di profitto rappresenta la forma mutata del saggio di plusvalore. Se nel saggio di plusvalore questo si presenta come risultato del solo capitale variabile, che corrisponde allo stato effettivo delle cose, nel saggio di profitto il plusvalore è presente come prodotto dell’intero capitale anticipato. In realtà il saggio del profitto, che storicamente ha costituito il punto di partenza, maschera l’entità reale dello sfruttamento della forza-lavoro e mostra solo il grado di redditività sotto forma di utile di cui gode il capitalista, la misura in cui il capitale si valorizza.
Marx era un profondo conoscitore delle scienze fisiche e naturali dalle quali aveva appreso l’insegnamento galileiano che « non vi sarebbe nessun bisogno di scienza se il fondamento delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente». Ci sono voluti molti secoli di progresso tecnico-scientifico, ad esempio, prima di capire che il moto apparente del Sole nel cielo era in realtà dovuto ai moti relativi dei corpi, alle prime decisive osservazioni astronomiche (Galilei) e alla gravità universale (Newton).
Inoltre, straordinariamente importante e nuova è l’analisi fatta da Marx dell’Accumulazione del capitale, ossia della trasformazione di parte del plusvalore in capitale, dell’impiego del plusvalore per una nuova produzione. Marx dimostrò l’errore di tutta la precedente economia politica classica (cominciando da A. Smith) la quale supponeva che tutto il plusvalore, trasformatosi in capitale, passasse al capitale variabile. Esso si scompone in realtà in mezzi di produzione (c´) e in capitale variabile (v´). Il nuovo capitale addizionale (c´) viene utilizzato per l’acquisto di mezzi di produzione addizionali, mentre la parte addizionale (v´) che va al capitale variabile, serve per l’assunzione di un numero di operai superiore a quello di partenza.
«Adoperare il plusvalore come capitale – scrive Marx- ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale». Il nuovo capitale originato dal plusvalore è il risultato dall’appropriazione gratuita di lavoro altrui. Il capitalista usa dunque quella che è l’oggettivazione di lavoro non pagato effettuato dagli operai per estrarre da questi altro lavoro non pagato, sotto forma di lavoro vivo. L’accumulazione del capitale, affrettando l’eliminazione dell’operaio da parte della macchina, creando ad un polo la ricchezza e al polo opposto la miseria, genera anche un esercito di disoccupati, il cosiddetto « esercito del lavoro di riserva », dando al capitale la possibilità di estendere la produzione con estrema rapidità. Questa possibilità unita con il credito finanziario e con accumulazione del capitale sotto forma di mezzi di produzione, ci dà, fra l’altro, la chiave per comprendere le crisi di sovrapproduzione.
Lo sviluppo economico, che avviene anche sulla base della rivoluzione tecnico-scientifica, si acutizza per la presenza di altri fattori legati alla distribuzione. La diseguaglianza nella distribuzione diventa il fattore più importante che impedisce a una serie di gruppi sociali di avere un’adeguata istruzione e qualifica. La correlazione tra lo sviluppo economico e la distribuzione del reddito nazionale tocca gli interessi vitali di tutte le classi e dei gruppi sociali della società capitalistica. Nel caso in cui, come attualmente avviene, l’economia è monopolizzata, (quando i processi di formazione dei prezzi dipendono in misura significativa dalla politica delle potenti associazioni economiche del capitale monopolistico e finanziario, quando la classe operaia è organizzata in sindacati e possiede la forza necessaria per difendere il proprio salario), la lotta per la distribuzione del reddito nazionale non può non assumere forme che toccano il meccanismo dello sviluppo dell’economia nel suo complesso. Perciò l’analisi di questo problema non potrà mai essere teoricamente “oggettiva”, cioè al di sopra delle classi, né politicamente neutrale, ma sempre e solo, legata ad una classe: o a quella operaia, o a quella borghese di cui l’economista e premio Nobel, Joseph Stiglitz, è uno strenuo difensore.